Il Mar Cinese Meridionale, porzione del vasto Oceano Pacifico, si estende per circa 3,5 milioni di chilometri quadrati. Esso è costellato da numerose isole, isolotti, formazioni coralline e scogli. Spesso due o più paesi rivieraschi rivendicano diritti di sovranità sulla medesima conformazione ingenerando forti tensioni che preoccupano la comunità internazionale. Le rivendicazioni sono sempre giustificate da ragioni storiche o geografiche ed ormai tutti i governi ne hanno fatto una questione d’orgoglio nazionale. Naturalmente vi sono, sottostanti, anche chiare ragioni economiche. Il Mar Cinese Meridionale è, infatti, molto pescoso e, sotto i suoi fondali marini, sarebbero custodite considerevoli riserve di idrocarburi. Negli ultimi anni le tensioni si sono acuite esponenzialmente con la Cina che è salita sul banco degli accusati a causa degli ingenti lavori d’ingrandimento e d’innalzamento dal livello del mare delle isole, isolotti, formazioni coralline e scogli posseduti nell’area.
Le differenti rivendicazioni: posizioni a confronto
Generalizzando, si può affermare che le dispute nel Mar Cinese Meridionale siano tre. La prima riguarda la sovranità sulle Isole Paracel e vede confrontarsi Cina, Taiwan e Vietnam; la seconda riguarda Scarborough Reef reclamata da Cina, Filippine e Taiwan e la terza riguarda le Isole Spratly. In quest’ultimo caso mentre Cina, Taiwan e Vietnam reclamano la sovranità su tutte le conformazioni facenti parte dell’arcipelago. Brunei, Filippine e Malaysia rivendicano la sovranità solo di alcune di esse.
Negli ultimi anni la Cina è stata accusata di perseguire una politica espansionistica con lo scopo di controllare tutto il Mar Cinese Meridionale. A tal riguardo, lo scorso 22 dicembre è apparso sul sito internet ufficiale del Ministero della Difesa giapponese un documento dal titolo “China’s Activities in the South China Sea”. Tale documento illustra, dalla prospettiva nipponica, la continuità delle azioni portate avanti dalla Cina per ottenere il controllo di detto spazio marittimo.
La penetrazione cinese nell’area, secondo il documento giapponese, sarebbe iniziata negli anni 50 del secolo scorso allorché, in concomitanza con il disimpegno francese dal Vietnam, la Cina si appropriò di alcune delle Isole Paracel. L’occupazione delle restanti isole fu completata nel gennaio del 1974 dopo uno scontro a fuoco con la marineria dell’agonizzante Vietnam del Sud. Nello scontro si registrò il danneggiamento di 3 navi cinesi mentre i vietnamiti subirono l’affondamento di un’unità e il danneggiamento di altre tre; numerosi furono i morti e i feriti da entrambe le parti.
Anche nella visione cinese le proprie rivendicazioni sarebbero giustificate da ragioni storiche[1]. In merito alla questione delle Isole Paracel, ad esempio, le autorità cinesi affermano che il loro attuale possesso non derivi da un’occupazione, ma sia semplicemente un rientro in possesso in quanto tali Isole, tra il 1931 e il 1933, furono sottratte proditoriamente dalla Francia, allora Paese colonizzatore del Vietnam, sfruttando la situazione di estrema difficoltà nella quale versava la Cina, intenta a difendersi dall’attacco giapponese in Manciuria. Proprio a seguito del colpo di mano francese sulle Paracel, l’allora governo cinese del Kuomintang decise d’istituire una commissione con l’incarico di redigere una carta geografica del Mar Cinese Meridionale evidenziando l’area sotto la propria sovranità.
Tale carta fu pubblicata nel 1935 e lo specchio di mare che il Kuomintang riteneva fosse sotto la propria sovranità fu delimitato da una linea composta da nove trattini (la cosiddetta 9 dash line)[2]. Anche le Isole Spratly e Scarborough Reef sono all’interno della “9 dash line”. Le odierne rivendicazioni cinesi nel Mar Cinese Meridionale fanno riferimento alla mappa del 1935 in quanto il Paese si erge ad erede legittimo del governo del Kuomintang[3]. Gli altri Paesi rivieraschi contestano la posizione cinese affermando che la mappa del 1935 debba considerarsi un atto interno e che, pertanto, essa non abbia alcuna validità giuridica a livello internazionale. Nel 1988 la Cina ha riunito le Isole Paracel e le Isole Spratly in una nuova provincia chiamata Hainan; dal 4 dicembre 2007 tutti i territori nel Mar Cinese Meridionale sono stati riuniti nel nuovo distretto amministrativo di Sansha, costituito all’interno della provincia di Hainan[4].
A sua volta il Vietnam, nel giugno 2012, ha promulgato una legge con la quale ha dichiarato che le Isole Paracel e Spartly sono parte integrante del proprio territorio nazionale. In ragione di tale legge, qualsiasi imbarcazione che si trovasse a navigare nelle vicinanze di tali isole sarebbe obbligata a notificare il fatto alle autorità vietnamite. Un altro picco di tensione tra la Cina e il Vietnam si è registrato nel maggio del 2014 allorché la Cina inviò una piattaforma di perforazione nelle acque delle Isole Paracel, un’area, come si è detto, considerata da entrambi i Paesi facente parte del proprio territorio nazionale. Nell’occasione in Vietnam si registrarono proteste di piazza contro la Cina e si contarono anche 21 morti, molti dei quali appartenenti alla locale comunità cinese. La questione si chiuse con il ritiro da parte cinese della piattaforma nel giugno dello stesso anno per motivi, secondo la versione di Pechino, legati alle cattive condizioni metereologiche.
Altro Paese che avanza rivendicazioni nell’area è la Repubblica delle Filippine. Essa ha alcune questioni aperte con la Cina. Il contrasto tra Cina e Filippine è diventato sempre più evidente ed insanabile a partire dalla metà degli anni 90 del secolo scorso. Un primo episodio si è registrato nel 1995, allorquando la Cina ha occupato Mischief Reef, che si trova all’interno della Zona Economica Esclusiva reclamata dalle Filippine. Ma il contrasto più eclatante ha riguardato il possesso di Scarborough Reef[5]. Un secondo episodio è avvenuto nel 1997, allorquando imbarcazioni filippine hanno preceduto quelle cinesi nel prendere possesso di Scarborough Reef, provocando forti rimostranze da parte delle Autorità cinesi. Successivamente, il 15 giugno 2012 la Cina, con un colpo di mano, è rientrata in possesso del Reef. In tale occasione si è rischiato di provocare un conflitto regionale[6]. In precedenza, negli anni 70 del secolo scorso, le Filippine avevano occupato sette conformazioni, ribattezzandole Kalayaan, sulla base del fatto che fossero “terra nullius”. Tali conformazioni, da molti ritenute facenti parte delle Isole Spratly, dalle Filippine sono considerate essere isole autonome per tre ragioni:
- le Kalayaan sono ad una ragguardevole distanza dalle Isole Spratly;
- la più grande tra le Isole Kalayaan è maggiore di tutte quelle che formano le Isole Spratly e, convenzionalmente, il nome di un gruppo di isole viene preso dall’isola più grande;
- da ultimo, perché le Filippine non hanno mai reclamato la sovranità sulle Isole Spratly o Paracel.
Dopo decennali tentativi di risolvere le controversie tramite negoziati bilaterali o sotto gli auspici deIl’Association of Southeast Asian Nations (ASEAN), le Filippine, seguendo la procedura prevista dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare[7], il 22 gennaio 2013 hanno notificato alla Cina la decisione di voler sottoporre al giudizio della corte arbitrale le dispute tra loro in essere sulla giurisdizione nel Mar delle Filippine occidentale, in particolare per quanto riguarda la c.d. “nine-dash line”. La Cina, con nota diplomatica datata 19 febbraio 2013 indirizzata alle Filippine, ha dichiarato che non avrebbe partecipato alla procedura arbitrale e, tanto meno avrebbe riconosciuto la validità del dispositivo finale. Nell’ottobre dello scorso anno la corte arbitrale ha dichiarato la propria competenza a giudicare sulle questioni sollevate dalle Filippine. Il 24 novembre successivo, il Tribunale ha iniziato il dibattimento sul merito a porte chiuse[8] ed ha concesso la possibilità che fossero presenti delegati dei seguenti Paesi: Australia, Giappone, Indonesia, Malaysia, Singapore, Thailandia e Vietnam[9].
La Malaysia rivendica la sovranità su 7 conformazioni, un’isola e sei scogli, facenti parte delle Isole Spratly, ma ne occupa solo quattro: l’isola, Swallow Reef[10], e tre scogli: Erica Reef, Investigator Shoal e Mariveles Reef. Le altre conformazioni rivendicate sono occupate: due dal Vietnam ed una dalle Filippine. Su Swallow Reef, in malese Layang-Layang, sono di stanza circa 70 militari malesi ed è stata costruita una pista di atterraggio[11], un faro, un porticciolo e una struttura turistica da 86 camere. Le rivendicazioni malesi poggiano sull’assunto che tali conformazioni si trovano all’interno sia della propria piattaforma continentale sia della propria Zona Economica Esclusiva. La prima evidenza di tali rivendicazioni si fa risalire ad una mappa pubblicata nel dicembre del 1979. Tale mappa, naturalmente, causò forti rimostranze da parte della Cina, delle Filippine, dell’Indonesia, di Taiwan e del Vietnam.
Il Brunei, il quale attualmente non occupa alcuna conformazione, rivendica la sovranità solo su Louise Reef in quanto essa starebbe sulla propria piattaforma continentale. Poiché Louise Reef è considerata parte delle Isole Spratly essa è contesa con Cina, Taiwan e Vietnam.
Lo scorso anno Taiwan[12] ha lanciato un’iniziativa di pacificazione nel Mar Cinese Meridionale proponendo a tutte le parti interessate di superare le rivendicazioni di sovranità sull’area per cercare di trovare un’intesa sullo sfruttamento delle risorse presenti nel Mar Cinese Meridionale. Ad oggi, la proposta di Taiwan non ha riscosso molta attenzione da parte degli altri Paesi.
Le questioni relative alla sovranità sull’area si riverberano anche su aspetti che agli occhi di un profano di questioni di diritto internazionale potrebbero sembrare marginali ma che, riguardando l’onore di uno Stato, sono vissuti come un affronto e, in quanto tale, vengono trattate con i più fermi ed opportuni passi diplomatici possibili. Un esempio si è avuto lo scorso 16 gennaio quando il governo vietnamita ha effettuato un passo ufficiale, rilanciato da alcune agenzie di stampa del Paese, nei confronti dell’International Civil Aviation Organization (ICAO) esigendo che sulle mappe di volo della zona del Mar Cinese Meridionale venissero apportate due correzioni: la cancellazione del toponimo Sansha City – China sull’Isola Spratly e la cancellazione del nome in inglese di un aeroporto sul Fiery Cross Reef.
Aver inserito tali nomi, secondo il governo vietnamita, sarebbe stata una plateale violazione della sovranità vietnamita sulle Isole Spratly[13] e sulle Isole Paracel[14]. Nell’occasione il Vietnam ha ricordato di aver più volte protestato contro la costruzione da parte cinese di Sansha City e la realizzazione di isole artificiali, aeroporti e strutture, anche mobili, per la prospezione dei fondali. Il 30 gennaio scorso, le agenzie vietnamite hanno informato che l’ICAO aveva provveduto ad apportare le modifiche alle mappe di volo della regione Sanya in linea con i desiderata vietnamiti. Laconicamente, attraverso il portavoce del Ministero degli Affari Esteri, Pechino ha auspicato che tali questioni siano tenute lontane dalla politica e ha ricordato che i nomi sulle mappe di volo servono a rendere il controllo aereo più efficace e ad assicurare la sicurezza del trasporto aereo civile internazionale.
Tentativi bilaterali per raggiungere un accordo per il superamento delle recriminazioni territoriali risultano molto complicate poiché spesso le parti che rivendicano la sovranità dei luoghi sono più di due. Al riguardo, significativo è il tentativo esperito nel 2009 dalla Malaysia e dal Vietnam di raggiungere un’intesa sulla definizione dei limiti esterni della piattaforma continentale tra i due Paesi. L’invio di una proposta congiunta alla Commissione sui Limiti della Piattaforma Continentale[15] ha suscitato forti rimostranze da parte della Cina e delle Filippine. E’ interessante sottolineare che la Cina per protestare contro la proposta inviata congiuntamente da Malaysia e Vietnam e per attestare i propri diritti di sovranità e di giurisdizione sul Mar Cinese Meridionale abbia, per la prima volta, utilizzato in un documento ufficiale la carta geografica con i 9 trattini.
Opere cinesi d’ingrandimento e d’innalzamento delle conformazioni
Come detto, le accuse rivolte alla Cina non riguardano solo l’occupazione ‘abusiva’ delle isole, isolotti, formazioni coralline e scogli all’interno della “9 dash line” ma anche, e soprattutto, gli ingenti lavori di ingrandimento ed innalzamento dal livello del mare delle stesse. Tali opere, sporadiche alla fine del secolo scorso, sono aumentate d’intensità negli ultimi due anni interessando un sempre maggiore numero di isolotti, formazioni coralline e scogli. Il pericolo paventato dagli altri paesi rivieraschi è che la Cina, con la trasformazione artificiale di tali piccole conformazioni in strutture più grandi capaci di ospitare infrastrutture civili e militari possa rappresentare uno strumento di rafforzamento del potere del Paese nell’area, oltre che permettere di rivendicare, ai sensi dell’art 121 della Convenzione ONU sulla Legge del Mare[16], una propria zona economica esclusiva[17].
I cinesi hanno proceduto ad effettuare lavori di allargamento della superficie di alcune delle isole da loro possedute nel quadrante. In particolare la Cina ha effettuato dal 2013 dei lavori sull’Isola di Woody[18], appartenente alle Paracel, per allungare la preesistente pista di decollo e, dall’ottobre 2015, sono stati ivi posizionati un numero imprecisato di J-11BH/BHS, aerei di quarta generazione. Anche nelle sette isole delle Spratly possedute la Cina ha avviato dei lavori al fine di realizzare delle infrastrutture stabili, come piste di decollo di aerei ed attracchi di mezzi navali.
Nell’aprile 2015, immagini satellitari hanno rilevato lavori per ingrandire la pista di volo presente sul Fiery Cross Reef. I lavori sono terminati nel dicembre del 2015 e il 2 gennaio di quest’anno la pista ha accolto il primo aereo civile. Alle comprensibili rimostranze diplomatiche delle Filippine e del Vietnam, la Cina ha replicato che tali lavori erano stati avviati solo per ragioni civili[19]. Il timore è che quei lavori siano invece connessi ad una strategia di Pechino tesa ad imporre una zona di identificazione aerea difensiva sul Mar Cinese Meridionale, così come avvenuto per i cieli sopra il Mar Cinese Orientale. Infatti, la lunghezza della pista di volo, circa 3.000 metri, permetterebbe l’atterraggio e il decollo sia di aerei da combattimento che di bombardieri a lungo raggio.
Anche Filippine, Malaysia, Taiwan e Vietnam possiedono isole nelle Spratly dotate di aeroporto, ma la loro lunghezza non è comparabile con quella appena realizzata dai cinesi sul Fiery Cross Reef. Nel dicembre dello stesso anno due sorvoli sul Mar Cinese Meridionale, da parte di due aerei militari, uno statunitense e l’altro australiano, hanno fatto insorgere le autorità cinesi che hanno affermato che tali sorvoli sono delle serie provocazioni militari. All’inizio di gennaio di quest’anno, invece, un aereo Cessna con insegne filippine è stato oggetto d’intimidazioni da parte di una nave da guerra cinese mentre era in avvicinamento all’Isola di Pegasa, non lontana dalle isole Spartly occupate dai cinesi, ove vive una comunità di pescatori e militari filippini. A fronte di tale avvenimento è stata registrata, tra l’altro, una forte presa di posizione dell’Ambasciatore britannico a Manila, Asif Ahmad, il quale ha affermato: “If a British aircraft, civilian or military, was intercepted and not allowed to fly over a space which we regard as international, we will simply ignore it.”
Ma nuove nubi si addensano all’orizzonte. Il vice sindaco di Sansha ha affermato, come riportato il 16 gennaio di quest’anno sull’edizione internet del China Daily, che verrà avviata la costruzione di tre navi di trasporto e che su tutte le isole e isolette sotto la giurisdizione di Sansha verranno costruiti moli o pontili. Pur non essendoci evidenze riguardo la capacità d’attracco dei moli o pontili che verranno costruiti, queste realizzazioni permetteranno alla Cina di avere una più ramificata presenza della propria guardia costiera nonché della propria marina militare aumentando considerevolmente la propria superiorità navale e, quindi, la capacità dissuasiva verso le azioni di rivendicazione territoriale degli altri Paesi[20].
Una corsa agli armamenti nel Mar Cinese Meridionale?
Sulla base degli ultimi dati disponibili sugli acquisti di armi, elaborati dallo Stockholm International Peace Research Institute e riferiti al 2014[21], la Cina in tale anno avrebbe speso circa 216 miliardi di dollari. La Cina si è riconfermata al secondo posto tra i paesi che hanno speso di più nel settore militare. In termini percentuali la Cina ha registrato un aumento delle spese militari del 9,7% su base annua, mentre l’aumento è stato del 167% nel periodo 2005-2014. C’è da segnalare, inoltre, che la Cina, per il forte impulso dato alla propria industria bellica, ha sempre più ridotto la dipendenza dall’estero per le forniture militari.
Per contrastare la sempre più possente forza militare del vicino, tutti gli altri paesi dell’area, compatibilmente con le proprie possibilità finanziarie, hanno avviato una politica di forte riarmo. Sempre secondo il citato Istituto svedese, il Vietnam nel corso del 2014 avrebbe speso circa 4,3 miliardi di dollari in sistemi d’arma, con una variazione percentuale nel decennio 2005-2014 di +128%.
Il Vietnam ha concentrato i suoi sforzi per modernizzare le difese aeree e navali. Dopo aver finalizzato negli scorsi anni l’acquisto di apparati radar di sorveglianza israeliani e di batterie missilistiche terra-aria S-300 russe, all’inizio di quest’anno è entrato in servizio nella marina vietnamita[22] il primo dei sei sottomarini classe Kilo ‘migliorata’, di fabbricazione russa, che avranno base a Cam Ranh Bay, base strategica sul Mar Cinese Meridionale[23]. Il Vietnam ha intrapreso anche azioni di diplomazia militare, avviando colloqui con altri paesi, segnatamente Giappone, Russia e Stati Uniti, volti a permettere l’utilizzo della base di Cam Ranh Bay per scopi logistici o di manutenzione al loro navi militari.
Anche le Filippine hanno recentemente alzato il livello del loro dispositivo militare appoggiandosi all’alleato americano. Infatti, a seguito di un accordo di cooperazione nel settore delle difesa, siglato lo scorso anno dai due Paesi e dichiarato costituzionale dalla Suprema Corte filippina, le Filippine hanno messo a disposizione delle Forze Armate statunitensi ben 8 basi militari. Inoltre le autorità filippine hanno inoltre auspicato l’inizio di pattugliamenti congiunti nel Mar Cinese Meridionale con gli Stati Uniti.
La presenza militare statunitense nell’area
La presenza militare statunitense nell’area non è una novità recente. Essa è legata alla tutela della libera navigazione e del libero sorvolo del Mar Cinese Meridionale.
Tale concetto è stato ribadito da ultimo dal Segretario alla Difesa, Ashton Carter, lo scorso 5 novembre in un incontro con la stampa avvenuto sul ponte della portaerei USS Theodore Roosevelt stazionante nelle acque del Mar Cinese Meridionale. Carter, con al fianco il Ministro della Difesa malese, nell’occasione ha aggiunto che negli ultimi tempi molti Paesi della regione hanno chiesto un maggior impegno statunitense per contrastare l’attività cinese potenzialmente gravida di minacce per la pace e per la stabilità della regione. Egli ha ribadito, comunque, che l’approccio statunitense per mettere in sicurezza l’Asia è inclusivo e, pertanto, auspica il coinvolgimento pieno della Cina per la risoluzione della questione.
L’impegno statunitense richiamato da Carter prevede per il 2020 un aumento di circa il 30% delle unità navali assegnate alla Flotta del Pacifico e, sempre per tale data, il posizionamento nel Pacifico di circa il 60% delle capacità militari navali e aeree dispiegate all’estero.[24]
Lo scorso 26 ottobre 2015 gli Stati Uniti hanno fatto transitare il cacciatorpediniere USS Lassen all’interno delle 12 miglia nautiche di Subi Reef, una delle conformazioni delle Isole Spratly sommersa durante le alte maree e sulla quale la Cina negli ultimi due anni ha realizzato delle infrastrutture. L’operazione, effettuata nell’ambito del Freedom of Navigation Operation (FONOP) è stata la prima nell’area dal 2012. Il transito mirava ad attestare il diritto di navigazione vicino al citato Reef e ad altre conformazioni reclamate da Filippine e Vietnam a prescindere dal loro status (isola o conformazione sommersa durante le alte maree). L’utilità sostanziale di tale operazione ha sollevato critiche in quanto aver giustificato il passaggio : “…as an exercise of ‘innocent passage’ rather than ‘freedom of the high seas’ appeared to give de facto recognition to the Chinese land claim”[25].
Un’altra operazione ricompresa nel programma FONOP è stata condotta dal cacciatorpediniere USS Curtis Wilbur il 30 gennaio scorso. Questa volta il passaggio è avvenuto all’interno delle 12 miglia nautiche dell’Isola Triton, appartenente alle Isole Paracel, amministrata dalla Cina, ma reclamata anche da Taiwan e Vietnam. Il passaggio è avvenuto senza una preventiva notifica ai Paesi citati i quali, in base a leggi interne, esigerebbero una preventiva notifica del passaggio. Questi passaggi non significano che gli Stati Uniti abbiano preso una posizione riguardo la sovranità delle isole e delle conformazioni oggetto di disputa ma servono ad affermare con vigore il diritto all’utilizzo del mare e dello spazio aereo in linea con la legislazione internazionale. Non è un caso che il passaggio della USS Curtis Wilbur sia avvenuto a brevissima distanza dall’incontro tra il Segretario di Stato americano John Kerry e il suo omologo cinese Wang Yi svoltosi il 27 gennaio precedente.
Conclusioni
Indubbiamente nel Mar Cinese Meridionale è in atto una delle tante crisi che costellano oggi l’orbe terracqueo. E’ in corso un braccio di ferro tra la Cina, ormai indiscussa grande potenza economica e prossima ad esserlo anche in campo militare, e gli altri Paesi dell’area, con la presenza incombente degli Stati Uniti.
Molti osservatori, tra i quali l’Australia[26], ritengono che ormai sia inevitabile una competizione tra Cina e Stati Uniti ma, al contempo, auspicano che tale competizione possa continuare ad essere ‘sana’ all’interno di una costruttiva cooperazione finalizzata al mantenimento della stabilità e della prosperità della regione.
Molti analisti auspicano che un accordo fra le parti possa trovarsi solo all’interno delle vigenti leggi internazionali e favorita da contesti multilaterali quali, ad esempio, l’ASEAN[27]. Tuttavia la strategia diplomatica cinese perseguita sino ad oggi, tendente a favorire la definizione delle questioni nell’area del Mar Cinese Meridionale attraverso accordi bilaterali con le singole controparti, come ribadito anche nella recente nota sul procedimento avviato dalle Filippine avanti il Tribunale per il Diritto del Mare, non permette di fare molto affidamento su tale soluzione; tanto che per l’analista statunitense Robert Kaplan il Mar Cinese Meridionale sarà il campo di battaglia del futuro[28].
Un rapporto del gennaio di quest’anno, commissionato dal Congresso americano al Dipartimento della Difesa dal titolo ‘Asia-Pacific Rebalance 2025: Capabilities, Presence and Partnerships’ prevede, tra l’altro, che il Mar Cinese Meridionale nel 2030 diventi ‘virtually a Chinese lake’. Tale previsione ha provocato grida d’allarme sulla perdita di capacità persuasiva degli Stati Uniti nei confronti della Cina.
Su questo scenario, entro la fine del 2016, calerà la decisione del Tribunale arbitrale sulla disputa fra Filippine e Cina. Il grande punto di domanda è: cosa succederà se il Tribunale dovesse dare ragione, in tutto o in parte, alle Filippine? Tenuto conto che la Cina ha già dichiarato che disconoscerà il dettato del Tribunale, come potrà agire la comunità internazionale per far rispettare la decisione? Con quali strumenti?
Il rischio è che si passi da una stagione internazionale governata da regole condivise ad una stagione internazionale ove la regola del più forte, con la possibilità non remota di attivare anche l’opzione bellica, sia la base per dirimere le questioni fra le nazioni. Si materializzerebbe così lo scenario più pessimistico vagheggiato, fin dal 30 maggio 2014, dal Primo Ministro giapponese Shinzo Abe nel corso del suo intervento al 13° IISS Asian Security Summit: “The least desirable state of affairs is having to fear that coercion and threats will take the place of rules and laws and that unexpected situations will arise at arbitrary times and places.”
L’Italia, così come l’Europa, anche se è impegnata a risolvere questioni più urgenti che potenzialmente possono investire la propria sicurezza interna, non deve ritenere che le tensioni in essere nel Mar Cinese Meridionale siano prive di ripercussioni dirette. Infatti, i Paesi contendenti sono tra i maggiori partner economici e commerciali dell’Unione europea e, qualora le tensioni dovessero nel breve periodo trasformarsi in confronti armati, si avrebbero ricadute devastanti sull’attuale timido recupero dell’economia italiana ed europea[29]. Forse, è giunto il momento di effettuare un cambio nella politica europea tesa a favorire il superamento delle tensioni in essere nel Mar Cinese Meridionale[30]. Sarebbe il caso che venissero prese in considerazione azioni più decise quali, ad esempio, un chiaro e forte appoggio alle iniziative concrete poste in essere da altri Paesi per attestare il diritto alla libera navigazione, marittima ed aerea, nel Mar Cinese Meridionale.
Costantino Moretti
Analista Internazionale
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[1] Un tentativo di confutare le ragioni storiche alla base delle rivendicazioni cinesi è stato fatto da Bill Hayton. Al riguardo vedasi: http://www.prospectmagazine.co.uk/world/chinas-false-memory-syndrome e http://www.asiasentinel.com/politics/fact-fiction-south-china-sea/
[2] Nel corso del 2014 la Cina ha pubblicato una nuova carta geografica del Mar Cinese Meridionale aggiungendo un decimo trattino in modo da ricomprendere Taiwan all’interno della zona da essa reclamata.
[3] Anche Taiwan rivendica la continuità con il governo del Kuomintang e, pertanto, avanza le medesime pretese e ragioni della Cina sull’area ma, naturalmente, con una differente capacità assertiva.
[4] Per maggiori informazioni vedasi ‘Security and International Politics in the South China Sea: towards a cooperative management regime’, a cura di S. Bateman e R. Emmers, Routledge, New York, 2009, pagg. 45 e ss.
[5] Scarborough Reef è conosciuta come Huangyan in cinese e Bajo de Masinloc in filippino. Le ragioni che sosterrebbero le rivendicazioni filippine sul Reef sono state enunciate di recente da J. L. Batongbacal nel corso del suo intervento al Cartographic Exhibit Forum, tenutosi all’Università De La Salle di Manila il 26 settembre 2014, dal titolo: Bajo de Masinloc (Scarborough Shoal) less-known facts vs. published fiction.
[6] Tale evento, secondo molti analisti, ha costituito anche un cambiamento nei rapporti di forza tra Cina e Stati Uniti. Tra gli altri Ely Ratner: “The crisis could have led to regional war. Dozens of government vessels and fishing boats were floating in dangerously close proximity to the reef in context of contested territory and restive publics. But more profoundly, the standoff at Scarborough Reef demonstrated that U.S. efforts to deter Chinese assertiveness were not working”. E. Ratner, Learning the Lessons of Scarborough Reef, in The National Interest, 21 novembre 2013.
[7] Per un approfondimento sulle regole previste per la soluzione delle controversie offerte dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, si rimanda a M. Porto, Verso una soluzione delle controversie nel Mar Cinese Meridionale? Il caso Filippine c. Cina, in I Report dell’IsAG, settembre 2015.
[8] Permanent Court of Artibration, Arbitration between the Republic of the Philippines and the People’s Republic of China, Press Release, The Hauge 24 novembre 2015.
[9] Il Tribunale ha rigettato la richiesta statunitense di partecipare con propri delegati in quanto il Paese non è tra quelli firmatari della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare.
[10] L’attuale nome malese dell’isola è rivendicata anche da Cina, Taiwan e Vietnam.
[11] La pista di atterraggio di Swallow Reef, di circa 1.300 metri, è la seconda più lunga nelle Isole Spartly.
[12] Taiwan possiede la più grande delle Isole Spratly: Itu Aba o Taiping.
[13] Truong Sa in vietnamita.
[14] Hoang Sa in vietnamita.
[15] L’articolo 76 comma 8 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, così recita: “Lo Stato costiero sottopone alla commissione sui limiti della piattaforma continentale, istituita conformemente all’allegato II, dati e notizie sui limiti della propria piattaforma continentale, quando questa si estende oltre 200 miglia marine dalle linee di base dalle quali si misura la larghezza del mare territoriale, sulla base di una rappresentazione geografica imparziale. La commissione fornisce agli Stati costieri raccomandazioni sulle questioni relative alla determinazione dei limiti esterni della loro piattaforma continentale. I limiti della piattaforma continentale, fissati da uno Stato costiero sulla base di tali raccomandazioni, sono definitivi e vincolanti.”.
[16] L’art 121 ‘Regime delle isole’ della Convenzione ONU sulla Legge del Mare, così recita:
1. Un isola è una distesa naturale di terra circondata dalle acque, che rimane al di sopra del livello del mare quando c’è alta marea.
2. Fatta eccezione per il disposto del seguente paragrafo 3, il mare territoriale, la zona contigua, la zona economica esclusiva e la piattaforma continentale di un’isola vengono determinate conformemente alle disposizioni della presente Convenzione relative ad altri territori terrestri.
3. Gli scogli che non si prestano all’insediamento umano né hanno una vita economica autonoma non possono possedere né la zona economica esclusiva né la piattaforma continentale.
[17] In base alla Convenzione ONU sulla Legge del Mare qualsiasi stato costiero può rivendicare una propria zona economica esclusiva per una distanza massima di 200 miglia nautiche dalla costa. All’interno di detta zona lo stato costiero ha il diritto di sfruttamento del sottosuolo marittimo ma, nel contempo, ha il dovere di consentire il libero passaggio in detta zona. Se tutti i paesi che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale reclamassero il pieno rispetto delle 200 miglia navali ci sarebbero molte sovrapposizioni di zone economiche esclusive.
[18] Yongxing in cinese.
[19] Nel corso dell’incontro con il Segretario di Stato statunitense, John Kerry, tenutosi lo scorso 27 gennaio a Pechino, il Ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha ribadito, tra l’altro, che la Cina ha costruito solo installazioni civili e strutture per l’autodifesa in linea con il diritto riconosciuto agli stati sovrani dalla legislazione internazionale.
[20] Nei vari confronti nel Mar Cinese Meridionale, la Cina utilizza principalmente le imbarcazioni della guardia costiera, lasciando sullo sfondo quelle militari. Così il Dipartimento della Difesa statunitense: “In particular China is increasingly deploying the Chinese Cost Guard (CCG) to enforce its claims over features in the East and South China Seas. China prefers to use its government-controlled, maritime law enforcement ships in the disputes, and operates PLAN (People’s Liberation Army Navy) vessels over the horizon so they are ready to respond to escalation.” Dipartimento della Difesa, Asia-Pacific maritime security strategy, Agosto 2015, pag. 14.
[21] S. Perlo-Freeman, A. Fleurant, P. D. Wezeman e S. T. Wezeman, ‘Trends in world military expenditure, 2014’, SIPRI Fact Sheet, Aprile 2015.
[22] Per maggiori informazioni sulla marina militare vietnamita vedasi si rimanda a P. P. Ramoino, ‘Marina vietnamita: un nuovo “dragone del mare” asiatico’, in Analisi Difesa del 6 ottobre 2015, consultabile su:
[23] L. Murdoch ‘South China Sea dispute: Vietnamese subs deployed as deterrent to China’, in The Sydney Morning Herald, 07.01.2016
[24] Vedasi: Dipartimento della Difesa, Asia-Pacific maritime security strategy, Agosto 2015, pag. 22.
[25] AA.VV. – Defense Outlook 2016: What to Know, What to Expect, Center for Strategic & International Studies, Washington, gennaio 2016, pag. 4.
[26] Al riguardo vedasi quanto riportato nel Libro Bianco della Difesa australiano 2016 in particolare nel capitolo ‘The United States and China’ pag. 41 e ss.
[27] Tra gli altri vedasi: G. Jacoangeli, Nel Mar Cinese territoriale, in ‘Lettera Diplomatica’ n. 1132, Roma 12 novembre 2015.
[28] R. Kaplan – Asia’s cauldron: the South China Sea and the end of a stable Pacific, Random House, New York 2014
[29] Al riguardo vds anche V. Stanzel – Danger on the High Seas: The East Asian Security Challenge, in ISPSW Strategy Series: Focus on Defense and International Security n. 403, febbraio 2016
[30] Nelle Guidelines on the EU’s Foreign and Security Policy in East Asia, adottate dal Consiglio d’Europa il 15 giugno 2012 l’approccio europeo sulle questioni relative al Mar Cinese Meridionale appare poco incisivo. Infatti così recita testualmente: “The EU and its Member States, while not in any sense taking position on these various claims, should nevertheless: – recall the great importance of the South China Sea (…); – continue to encourage the parties concerned to resolve disputes through peaceful and cooperative solutions and in accordance with international law (in particular UNCLOS), while encouraging all parties to clarify the basis for their claims; -recall previous work to build a collaborative diplomatic process on these issues at the regional level, and encourage ASEAN and China to build on this foundation and agree on a Code of Conduct; – and , if welcomed by the relevant parties, offer to share the experience of the EU and its Member States in relation to the consensual, international-law-based settlements of maritime border issues, and to the sustainable management of resources and maritime security cooperation in sea areas with shared sovereignty or disputed claims.”.