Tra il 20 e il 28 gennaio si è tenuto ad Hanoi il XII Congresso del Partito Comunista Vietnamita, che guida il Paese dall’unificazione del 1975. Il Vietnam tra il 1986 e il 2013 ha avuto un tasso medio di crescita del Pil del 6,53% (la media dei Paesi a reddito medio è stata del 4,67%) e dal 1990 al 2013 il reddito medio mensile pro capite, a prezzi correnti, è passato da poco meno di 100 dollari Usa a 1960. Questi pochi dati possono dare un’idea di come la Repubblica Socialista del Vietnam abbia un’economia in forte crescita e sempre più integrata in quella mondiale. La forza dell’economia, unita alla posizione strategica del Paese, rendono Hanoi un attore fondamentale per le dinamiche geopolitiche regionali e lo pongono virtualmente al centro dello scontro tra Cina e Stati Uniti per il controllo delle rotte commerciali nell’Asia-Pacifico.
Il Congresso ha visto la contrapposizione di diverse visioni economiche e di approccio alla politica estera. Quest’organismo è il più alto organo decisionale del partito, elegge il Comitato centrale ed il Politburo, i due centri decisionali che attuano le linee guida del partito; in particolare il secondo, che riunendosi una volta al mese con alcune sessioni settimanali, è l’istituto che prende le decisioni operative più importanti. Per le varie élite di potere è dunque fondamentale mettere le mani su questo organo per attuare la propria visione (ed i propri interessi).
I due principali politici che si sono scontrati sono il Segretario generale del Pcv Nguyen Phu Trong e il Primo ministro Nguyen Ta Dung. Il primo, più conservatore e filo-cinese, ha avviato una grande campagna anticorruzione atta a sradicare i disonesti dalle cariche pubbliche per riottenere la fiducia della popolazione nel Pcv, mentre Dung, sostenitore della necessità di maggiori riforme di mercato, ha portato il Paese più vicino all’Occidente ed in particolare agli Stati Uniti firmando il TTP (Partenariato Trans-Pacifico): il suo obiettivo era sostituire Trong alla guida del partito.
La lotta interna ha visto prevalere anche questa volta Trong che, salvo problemi legati ai suoi quasi 73 anni, si prepara a guidare la Repubblica fino al prossimo Congresso del 2021.
A prescindere dalla vittoria di una visione più o meno aperta alle riforme di mercato o più o meno orientata ad uno dei due colossi Usa/Cina, le politiche vietnamite rimarranno presumibilmente nei binari tracciati anni fa e che hanno caratterizzato la ricetta del successo per Hanoi.
Dal punto di vista economico la svolta avvenne nel 1986 con il VI Congresso Nazionale del Pcv. I decisori politici vietnamiti si resero conto delle difficoltà della propria economia, troppo legata alla pianificazione, e decisero così di avviare un vasto programma di riforma denominato Doi Moi (Riforma), il cui scopo era quello di trovare la via al socialismo di mercato. Nello specifico vennero liberalizzati i prezzi ed il commercio, le terre collettive vennero distribuite ai contadini e si riformò il sistema bancario. Da quella data vennero varate una serie di leggi che permisero la privatizzazione di alcuni settori industriali e dei servizi e incentivarono gli investimenti diretti esteri, nonché la libertà di impresa per tutti i cittadini.
L’avvio di Doi Moi ha permesso il fenomenale sviluppo economico di questi trent’anni trasformando il Vietnam da società prevalentemente agricola a industriale orientata alla modernizzazione. Questa crescita economica gli ha permesso di entrare in vari forum internazionali, di normalizzare le relazioni con molti Paesi, tra cui il suo ex rivale Usa, ed ha permesso l’ingresso di Hanoi nel Wto (World Trade Organizzation) nel 2007.
L’orientamento economico non sarà messo in discussione da chiunque rivestirà i ruoli chiave nel partito o nel governo, ciò che potrebbe cambiare sono la velocità di apertura e il come affrontare il problema principale derivante da una maggiore libertà economica, ossia lo spettro di maggiori libertà politiche. I valori del mercato incentrati sull’individualismo possono infatti minare la base stessa della società vietnamita, non tanto in quanto fondata su valori socialisti ma in quanto società basata sul confucianesismo (cultura che ha posto ottime basi per una visione del mondo più incline al collettivismo socialista) che pone l’accento sull’importanza della collettività e della gerarchia. Non a caso Trong sta cercando di ripulire gli apparati statali e di partito da coloro che palesemente si arricchiscono grazie alla propria posizione, in modo da mantenere la legittimità del potere politico agli occhi dei cittadini.
Dal punto di vista delle relazioni internazionali, come già anticipato, qualunque fazione del Pcv governi il Paese manterrà invariati alcuni capisaldi, in particolare il “principio dei tre no”: non legarsi a nessuna alleanza militare, non ospitare basi militari straniere sul proprio territorio e non prendere parte ad azioni militari contro altre nazioni.
Questi principi sono frutto delle esperienze storiche, anche traumatiche, che il Vietnam ha vissuto. L’alleanza con l’Unione sovietica in funzione anticinese è stata pagata cara da Hanoi, sconfitta dal potente vicino nella guerra di frontiera del ’79 e nel Mar Cinese Meridionale nell’88; le relazioni con Pechino si normalizzarono con somma difficoltà nel 1991.
Con la fine della Guerra Fredda la Repubblica Socialista del Vietnam si ritrovò smarrita in uno scenario internazionale privo del principale riferimento ideologico, nonché alleato militare. Negli anni 90 i vertici del partito ebbero la lungimiranza di ridefinire il proprio Paese non in quanto parte del blocco socialista (appena disciolto) ma come nazione del sudest asiatico. Questo cambio di rotta portò Hanoi a normalizzare le relazioni con i Paesi dell’area fino all’ingresso nell’Asean (Association of South-East Asian Nations).
Questa politica multilaterale permette ad Hanoi di creare un clima favorevole per gli investimenti esteri e bilanciare l’ingombrate vicino cinese. I rapporti che legano i due Paesi sono molto antichi e possono essere fatti risalire alla dinastia cinese degli Han (206 a.C. – 220 d.C.); durante tutto il primo millennio dopo Cristo la parte nord del Vietnam è stata in qualche modo sotto il controllo più o meno diretto degli imperatori Cinesi; anche nei secoli successivi il Celeste Impero ha sempre in qualche modo influenzato gli avvenimenti politici del Paese favorendo una famiglia locale piuttosto che un’altra o intervenendo a difesa del re vietnamita di turno.
Per il Vietnam la Cina è stata per secoli un modello di civiltà, di cultura, fonte di ispirazione per l’organizzazione sociale e statale, quindi né gli scontri avvenuti durante la Guerra Fredda né gli attriti degli ultimi anni per le isole contese nel Mar Cinese Meridionale possono cancellare questo legame. Nel 2004 Pechino è diventata il principale partner commerciale di Hanoi e nel 2008 i due Paesi hanno istituito una partnership complessiva strategico-cooperativa.
Ovviamente né i legami storici né i legami economici attuali devono far pensare al Vietnam come Stato vassallo della Cina; la furbizia di Hanoi sta proprio nel mantenere forti legami bilaterali con Pechino ma cercare diverse sponde internazionali da usare come deterrente per un’eccessiva ingerenza cinese su ciò che riguarda la propria sovranità.
Il pomo della discordia tra le due nazioni (in verità nella disputa vanno considerati anche Taiwan, Malaysia, Brunei e Filippine) sono gli arcipelaghi delle Spratly e Paracelso sui quali i vari paesi rivendicano la sovranità con i relativi diritti di utilizzo delle risorse ittiche e di idrocarburi, senza considerare che in questo tratto di mare transita circa il 40% del commerci mondiale.
I Paesi membri dell’Asean vorrebbero mantenere lo status quo nella regione mentre la Cina come potenza revisionista cerca, con mosse molto ardite, di alterare l’ordine vigente. Pechino ha avviato la costruzione di isole artificiali stanziandovi sopra anche personale militare, ha ostacolato i pescherecci delle altre nazioni rivierasche e, tra il maggio e il luglio 2014, ha installato una piattaforma petrolifera a sole 120 miglia nautiche dalla costa vietnamita, nella sua cosiddetta ZEE (Zona economica esclusiva).
La strategia di Hanoi nei confronti di Pechino oscilla quindi tra il coinvolgimento e il bilanciamento. Coinvolgimento sia in sede bilaterale, nel 2006 è stata istituita la Commissione sulla cooperazione bilaterale Vietnam-Cina e nel 2011 il Segretario Trong ha firmato con Pechino l’accordo sui principi guida per la risoluzione delle questioni marittime, sia in sede multilaterale coinvolgendo la Repubblica Popolare in un dialogo più ampio in seno ai forum Asean. Per quanto riguarda il bilanciamento la strategia vietnamita si orienta al multilateralismo.
Vediamo alcune mosse di Hanoi: la cittadina costiera di Cam Ranh, che ospitava la base navale sovietica durante la Guerra Fredda e rimasta ai russi fino al 2002, è diventata una delle basi della Marina Militare vietnamita; nel porto viene regolarmente permesso l’attracco alle navi da guerra di qualunque paese pronto a pagare l’affitto, Stati Uniti inclusi, senza concedere esclusive a nessuno. Gli USA sono ormai un importante partner per il Vietnam e benché Washington sfrutti i contrasti tra Hanoi e Pechino per le isole contese solo per i propri interessi e scopi, i vietnamiti se ne avvantaggiano per ottenere in ambito internazionale un influente appoggio; la posizione di Washington influenza infatti quella di altri importanti attori dell’area come l’Australia, il Giappone, la Corea del Sud, l’India e le Filippine.
Oltre agli appoggi politici il Vietnam sta investendo molto sulla deterrenza, in particolare nel comparto aeronavale. Ad esempio è stato siglato un accordo con la Federazione russa per sei sommergibili classe Kilo e quattro fregate leggere classe Gepard; nel 2012 ha acquistato dai Paesi Bassi quattro corvette classe Sigma e attualmente sta acquisendo dalla Russia almeno venti aerei multiruolo da combattimento Su-30 Mk2 nonché una dozzina di Su-27 e MiG. Nel 2013 Hanoi ha firmato un contratto da 450 milioni di dollari con Mosca per un ulteriore fornitura di aerei, mentre dal Canada ha acquistato sei aerei anfibi Dhc-6 Twin Otter. Oltre alle forniture militari sono state potenziate la cooperazione bilaterale e multilaterale nel settore della Difesa con altre potenze.
Il rieletto Segretario Trong è probabile che si manterrà su questa linea di condotta; il fatto che sia considerato filo-cinese non significa che svenderà la sovranità vietnamita al potente vicino così come se avesse vinto Dung il Paese non si sarebbe gettato nelle braccia degli statunitensi.
I russi vendono armi ad Hanoi ma non si schierano politicamente a favore del Vietnam per non inimicarsi il partner cinese, la Cina fa lo stesso per quanto riguarda la questione ucraina; gli Stati Uniti ostacolano l’espansionismo cinese nei mari ma potrebbero un giorno appoggiare Pechino nelle sue rivendicazioni a sfavore del Vietnam in cambio dell’appoggio cinese su qualche altra questione rilevante per Washington, Hanoi non deve quindi affidarsi troppo agli americani.
Indipendenza è la parola chiave per leggere le politiche vietnamite dei prossimi anni. L’indipendenza politica è stata conquistata a caro prezzo dal popolo vietnamita e la sua classe dirigente è sufficientemente abile da mantenere, grazie al mantra dei “tre no”, il Paese equidistante dalle maggiori potenze per quanto riguarda le dispute geopolitiche ma il più coinvolto possibile a livello economico a tutti quegli attori che possono favorirne lo sviluppo e la crescita.
Gianluca Padovan
Esperto di problematiche russe, iraniane ed asiatiche