“RESILIENZA A SHOCK ESTERNI, INVESTIMENTI TECNOLOGICI E RELAZIONI PRIVILEGIATE CON WASHINGTON E PECHINO: ECCO COME LA THAILANDIA VUOLE DIVENTARE UNA POTENZA REGIONALE NEL SUD-EST ASIATICO”
di Luigi Marcadella, European Policy Analyst
Dal 40esimo piano dell’All Seasons Place, all’87 di Wireless Road, Lorenzo Galanti, ambasciatore italiano a Bangkok dal 2018, gode di un panorama unico per monitorare lo sviluppo economico della capitale thailandese. Uno sviluppo che, come accade in molte altre metropoli, si misura anche nell’incessante costruzione di grattacieli e palazzi che stanno tratteggiando l’avveniristico skyline di Bangkok. Con l’intervista a Issara Sereewatthanawut, l’ultima uscita del Global Gordian Outlook sulla Thailandia (“Il caso Thailandia: ecco come la nuova potenza asiatica ha affrontato la pandemia”) ha riscosso grande – e in parte inatteso – interesse su quello che succede a quasi 10 mila chilometri dall’Europa, in quello che ufficialmente si chiama Regno di Thailandia.
Ambasciatore Galanti, la Thailandia è da qualche mese un “caso di studio” nella politica internazionale grazie ad una imponente organizzazione pubblica messa in campo per affrontare la pandemia.
«Con meno di 3.250 casi complessivi di Covid, e ormai 50 giorni con soltanto casi provenienti dall’estero, si può dire che la Thailandia sia riuscita a controllare con successo il virus. L’ha fatto grazie ad un dispositivo di prevenzione molto efficace, grazie ad un sistema sanitario avanzato, grazie ad una cultura del distanziamento già innata nella popolazione, che si saluta, per esempio, congiungendo le mani nel tipico “wai”, ma senza contatto tra le persone. Inoltre, è molto in uso la mascherina, anche per proteggersi dalle polveri sottili. C’è poi da dire che la popolazione thailandese è particolarmente preoccupata del virus, e quindi si è attenuta molto strettamente alle misure decise dalle autorità. Sul piano terapeutico si è utilizzata l’esperienza maturata con la cura del virus HIV. Mentre per la ricerca sul vaccino vi sono ben 5 progetti thailandesi, uno dei quali con l’Università Chulalongkorn, basato sul mRNA, che a settembre sarà testato sugli umani. Il progetto è simile ad uno in corso negli USA e se la sperimentazione americana dovesse concludersi prima anche questo progetto ne sarebbe accelerato. La sfida sui vaccini non è solo nella ricerca, ben presto sarà una competizione produttiva per rendere disponibili il maggior numero di dosi nel minor tempo. E la Thailandia sta giocando questa partita. Nel contesto dell’Asean, insieme al Vietnam, la Thailandia è quindi al momento un “caso di successo”. Vi è naturalmente anche qui una viva preoccupazione per una possibile seconda ondata. Per questo, gli ingressi dall’estero sono fortemente limitati e soggetti a multipli Covid test e quarantena obbligatoria in hotel designati dalle autorità, a carico del visitatore».
Nel contesto del Sud-Est asiatico, nell’Asean in particolare, Bangkok si è ritagliata da tempo inoltre ormai uno specifico ruolo geostrategico. Quali sono le strategie politiche thailandesi nell’ottica di diventare una nuova potenza regionale?
«La Thailandia ritiene, forse correttamente, che questa sorta di immunità possa diventare nel mondo del “post Covid” un fattore di attrattività più determinante rispetto agli incentivi fiscali tradizionali, anche per gli investitori. Ma la tolleranza zero sui nuovi casi è un obiettivo davvero ambizioso se guardiamo a come il contagio ancora infuria a livello globale. Al tempo stesso, imperversa globalmente il confronto sulle responsabilità della pandemia. Il mondo del “post Covid” è – e qui nel Sud-est asiatico si sente in maniera particolare – un mondo fortemente polarizzato, nel quale la ricetta della globalizzazione, che tanto aveva fatto prosperare questa parte del mondo, è messa fortemente in discussione dal cosiddetto “disaccoppiamento” tra l’economia cinese e statunitense. In questo quadro, la Thailandia e altri paesi del Sud-est asiatico possono beneficiare nel breve e medio termine di un afflusso di investimenti delocalizzati dalla Cina, non solo cinesi ma anche investimenti di altri paesi, come gli Stati Uniti e il Giappone. Questo perché uno degli elementi di attrattività della Thailandia risiede nella sua capacità di mantenere eccellenti relazioni sia con gli Stati Uniti che con la Cina, nonché con tutte le altre potenze regionali, come Giappone, Corea e India, oltre a tutti i Paesi membri dell’Asean. In questo senso, la Thailandia è per esempio meno esposta al rischio di guerre daziarie. Ma non è al riparo dalle guerre tecnologiche e dalle più ampie conseguenze del “disaccoppiamento” tra Cina e Stati Uniti, che fraziona i mercati e impone di ristrutturare le catene del valore attorno a criteri nuovi. Per un’economia che esporta tra beni e servizi, turismo incluso, il 70% del Pil non è una sfida da poco».
La pandemia da COVID-19 evidentemente però è destinata a ri-orientare una parte di politiche commerciali, produttive e turistiche della Thailandia, almeno nel breve-medio periodo. Il governo thailandese cosa dovrà cambiare per far coincidere la sicurezza sanitaria e il progetto di sviluppo economico avviato in questi ultimi 10 anni?
«Come in tutti i Paesi, il dilemma posto dalla pandemia è quello di massimizzare la protezione della salute minimizzando i danni economici. In questo senso, la Thailandia predilige in questo momento la protezione della salute, perché sebbene le attività siano quasi completamente riprese, la chiusura al turismo dall’estero e di fatto anche, per ora, all’ingresso di imprenditori e tecnici, comporta rallentamenti anche in progetti infrastrutturali importanti. Ipotizzando un rapido cambio di paradigma, la Thailandia punta a riposizionare il suo turismo (40 milioni di presenze nel 2019, di cui 25% cinesi) su un segmento alto, con particolare enfasi sul turismo medicale, data la qualità delle strutture mediche, dimostrata anche durante l’epidemia. Inoltre il Governo mira a creare particolari condizioni sul piano tecnologico, nello specifico con il 5G. La Thailandia è la prima nell’Asean ad introdurre a livello commerciale, per attrarre tramite il “Board of Investment”, investimenti in settori avanzati, come l’agricoltura intelligente, l’auto del futuro, i biocarburanti, la medicina e l’economia digitale. Un’altra sfida è quella di ridurre le diseguaglianze. Il risultato straordinario conseguito nella riduzione della povertà in trent’anni dal 67% nel 1986 al 7,8% nel 2017 deve fare i conti con un’accentuata disparità nella distribuzione della ricchezza: il coefficiente di Gini al 90,2 indica una elevata concentrazione del reddito in poche mani. L’agricoltura e le PMI sono fondamentali in questo senso, ma sono anche molto esposte alle conseguenze della pandemia. Per questo il governo di Bangkok ha approntato strumenti di sostegno mirati, che il Parlamento ha rapidamente approvato».
I punti di forza dell’economia thailandese, debito pubblico basso, inflazione sotto controllo, moneta forte, sono in grado di dare alla Thailandia un plus competitivo per affrontare shock esogeni e di diversa natura nel prossimo futuro?
«Oggi, come viene ripetuto spesso qui in Asia, un elemento fondamentale che denota la forza di un’economia, non è tanto la sua capacità di crescere rapidamente, quanto la sua resilienza rispetto a shock esterni. La Thailandia ha caratteristiche macro economiche che le consentono di far fronte ad una crisi economica. Per attenuarne gli effetti, ha messo in campo circa 54 miliardi di euro in sussidi, crediti agevolati alle PMI e liquidità per il mercato obbligazionario corporate, nonché importanti progetti di sviluppo locale. Nell’insieme parliamo di circa il 9% del Pil, con un indebitamento pubblico che passerà dal 42% al 57% del Pil, ma come si vede, sono proporzioni che non pongono seri rischi per la stabilità finanziaria. Tuttavia l’impatto della crisi è stimato dalla Banca di Thailandia in una contrazione dell’8,1% del Pil (FMI e Banca Mondiale sono più ottimisti: -6,7% e -5% rispettivamente). In assenza del turismo di massa sarà importante saper continuare a offrire sostegno alle fasce più deboli e alternative di impieghi ai numerosi senza lavoro. Da tener presente inoltre che la ripresa potrebbe essere più lenta in Thailandia rispetto al resto dell’ASEAN, dato che qui l’economia è più matura».
Dal punto di vista interno, la Thailandia ha vissuto negli ultimi decenni molti scossoni istituzionali, da meno di un quinquennio gode di una relativa stabilità del suo sistema politico. Per comprendere al meglio l’attuale contesto politico thailandese, ci delinea le grandi “linee di frattura” presenti nel Paese?
«Il dibattito sulla riconciliazione tra quelle che semplicisticamente, con una metafora cromatica, vengono chiamate “camice gialle” e “camice rosse” è particolarmente attivo in questo momento storico in Thailandia. Si definiscono “camice rosse” i sostenitori dell’ex Primo Ministro Taksin Shinawatra e della sorella Yingluck, e invece “camice gialle” i sostenitori dell’attuale leadership. Vi è poi, soprattutto tra la classe media urbana, una categoria di giovani che si riconosce nelle istanze portate avanti dal partito Future Forward, affermatosi come terzo partito alle elezioni dello scorso anno, poi dissoltosi per motivi legati anche alla legge sul finanziamento ai partiti, e ora ridenominato Move forward. Questa forza politica di opposizione è distinta dalle precedenti e ha sue caratteristiche autonome. Anche in Thailandia, come in altri Paesi della regione, i social media costituiscono un elemento nuovo del dibattito politico, con una forza dirompente per quanto riguarda la capacità di influenzare il dibattito e le decisioni politiche».
Per quanto concerne invece la proiezione esterna della Thailandia, la posizione geografica impone a Bangkok una diplomazia che, per forza di cose, deve contemplare una buona dose di “equivicinanza”, per dirla con Giulio Andreotti, tra la superpotenza cinese e Washington. Soprattutto in questa precisa fase storica di tensione crescente tra Usa e Cina, come si sta delineando la politica estera thailandese?
«Sicuramente la forte presenza economica, finanziaria e imprenditoriale della Cina, nonché l’origine cinese di una parte della popolazione thailandese, a seguito di varie ondate migratorie nei secoli, hanno un’impronta culturale importante in Thailandia. Il Paese tuttavia, storicamente, attinge le sue tradizioni e mitologie anche dall’India. Al tempo stesso anche il Giappone, con il suo “soft power” tradizionalmente riconosciuto e la sua radicata presenza nel settore manifatturiero, rappresenta un modello che può contare in loco anche su istituzioni di formazione superiore e tecnica legati all’industria automobilistica nipponica. Anche la Corea del Sud, soprattutto negli ultimi anni, esercita una forte attrattiva culturale soprattutto sui più giovani, grazie anche al fenomeno del K-pop e alla produzione di film e serie televisive molto seguite. Ciò detto, la Thailandia ha una marcata identità culturale, che si manifesta in tradizioni che sono tuttora molto vissute e sentite. La cerimonia di incoronazione di Re Rama X nel maggio del 2019 ha offerto una dimostrazione straordinaria della forza delle tradizioni culturali in questo Paese. Anche l’Europa esercita da sempre una sua attrattiva culturale, come pure le università anglosassoni. “Equivicinanza” è una definizione molto appropriata, alla quale affiancherei anche la “multi-vettorialità”, una genuina vocazione multilateralista, e una crescente spinta regionalista».
Una mitezza in politica estera funzionale alle sue ambizioni economiche e commerciali di scala quantomeno regionale?
«La Thailandia persegue, nel proprio precipuo interesse, una politica di amicizia a 360 gradi. Come osservava un commentatore thailandese pochi giorni fa, la Thailandia intende evitare che l’area sia egemonizzata da qualsiasi potenza. In questo senso è la centralità dell’Asean, l’associazione del sud-est asiatico, che fungendo da piattaforma di dialogo con i suoi numerosi partner regionali svolge la funzione di proiettare stabilità nella regione definita da alcuni “Indo-Pacifico”. Questo approccio è stato codificato lo scorso anno, durante la presidenza thailandese dell’Asean, in un documento definito “Asean Indo-Pacific outlook“. L’Asean, con un forte impulso anche da parte dell’Indonesia, ha elaborato una “visione” che tende a mettere in risalto le complementarietà delle varie strategie esistenti sulla regione, anche in termini di connettività (si pensi alla “Belt and Road Initiative” cinese e il “Free and Open Indo Pacific” statunitense e giapponese), piuttosto che le contrapposizioni».
Uscendo dal contesto asiatico e del Pacifico, quali sono invece gli interlocutori statuali privilegiati della Thailandia in Europa e nel mondo?
«L’Unione Europea è un partner importante dal punto di vista degli scambi, degli investimenti, della tecnologia e del turismo. Al periodo di relativa freddezza seguito al colpo di stato del 2014 è adesso subentrato il momento dell’engagement, che potrebbe portare, se entrambe le parti lo vorranno, alla ripresa dei negoziati per un accordo di libero scambio tra la Thailandia e l’Unione Europea. Il rapporto tra Unione e Thailandia ha potenzialità rilevanti. L’UE non ha interessi geopolitici nell’area. Questo può facilitare il dialogo».
L’Italia ha in comune con la Thailandia due fattori determinanti per lo sviluppo economico: il turismo e una struttura produttiva manifatturiera rilevante. Oltre all’Associazione Italia-Asean (presieduta dall’ex premier italiano Enrico Letta) e all’attività del Forum Ambrosetti, come si stanno strutturando le relazioni bilaterali tra Roma e Bangkok?
«L’Associazione Italia-Asean sta perseguendo molto attivamente un’attività di sostegno all’avvicinamento del mondo imprenditoriale italiano alla comunità imprenditoriale dell’Asean nel suo insieme e con i singoli Paesi. L’iniziativa sviluppata con Ambrosetti di svolgere annualmente un dialogo economico di alto livello tra comunità imprenditoriali italiane e dell’Asean è un modello a cui altri guardano con interesse, ed è fortemente sostenuto dal Governo italiano e dalla Farnesina. Vi sono numerosissime iniziative che stiamo lanciando in Asean. Con la Thailandia stiamo negoziando accordi su rinnovabili, turismo, cooperazione scientifica e tecnologica. Anche nell’era delle videoconferenze, i rapporti personali sono fondamentali in questa parte del mondo. È anche con questo spirito che nel 2015 è stato creato l’“Italy Thailand business forum”, che riunisce oltre 40 aziende dei due Paesi con circa 400 miliardi di fatturato. Il business forum, la cui regia è affidata a Italmobiliare da parte italiana e Central Group (proprietario di La Rinascente) da parte thailandese è uno strumento molto importante di sostegno alle relazioni bilaterali e non solo in campo economico. Come dimostra, per esempio, la donazione all’ospedale degli alpini di Bergamo di due ventilatori polmonari da parte dei membri thailandesi del business forum e da parte della Camera di Commercio thailandese nell’aprile scorso. Vi è poi il ruolo dinamico svolto in Thailandia dalla Thai Italian Chamber of Commerce, TICC, membro di Assocamerestero e Camera di Commercio riconosciuta, con la quale l’Ambasciata e l’ufficio ICE di Bangkok collaborano attivamente nella promozione del made in Italy e della presenza italiana in Thailandia. Possiamo contare su oltre 3 miliardi di interscambio, soprattutto dovuti alle PMI ma anche a realtà come Leonardo, nonché ad una presenza in progetti infrastrutturali ed energetici di grandi imprese, come Saipem e Ferrovie dello Stato».
Il fascino dell’Italia, e di tutto ciò che è di produzione italiana, potrebbe anche nel lontano Sud-Est asiatico regalarci qualche vantaggio aggiuntivo nei rapporti bilaterali.
«L’Italia può contare su un’immagine molto positiva, nel precedente secolo corroborata dal lavoro di illustri architetti, artisti e decoratori chiamati dalla casa reale per costruire edifici e decorare palazzi. Il toscano Corrado Feroci, che ha vissuto ed insegnato in Thailandia nella prima metà del secolo, è considerato uno dei padri dell’arte contemporanea in questo Paese ed è una figura molto apprezzata e riverita. L’Italia è amata e apprezzata in Thailandia, dove i ristoranti italiani sono frequentatissimi. Non ricordo di aver incontrato un thailandese che non abbia visitato più volte le nostre città storiche, i nostri laghi, monti, isole. Le auto di lusso italiane sono un riconosciuto status symbol, e così la moda e il design, incluso l’arredo».
Lei è Ambasciatore anche in Cambogia e in Laos. Nel contesto regionale, l’Asean è ormai uno dei grandi baricentri del potere commerciale ed economico in Asia. La pandemia e il rischio di un altro “cigno nero” sanitario che tipo di ragionamenti ha messo nell’agenda politica dei Paesi membri dell’Asean?
«La pandemia ha creato un nuovo paradigma, che è quello dell’immunità regionale. Capitalizzare sulla buona performance evidenziata nel contenimento della pandemia non sono in Thailandia, ma per ragioni diverse anche in Cambogia e in Laos, oltre che in Vietnam e in Myanmar, offre all’Asean la possibilità di presentarsi al mondo con credenziali molto valide in questa fase. Come dicevo, e la resilienza rispetto a shock esterni, ma anche a disastri naturali, ai quali questa regione del mondo è molto esposta, che costituiscono l’attrattiva di un sistema economico nell’era del “post-Covid”. Unitamente a una forte accelerazione dei processi di digitalizzazione in tutti i campi e una particolare attenzione al tema della sostenibilità. Su quest’ultimo punto l’Italia è particolarmente impegnata, anche nel quadro della co-presidenza della COP26 e in vista della presidenza italiana del G20 il prossimo anno. Ne facciamo pertanto un tema chiave del rapporto con l’Asean, che andiamo sviluppando e sostanziando sempre di più anche in questa fase pandemica».
Le élites sovranazionali nel Vecchio Continente e alcuni ambienti occidentali si interrogano su come “dare ordine” economico e strategico al “disordine” che potrebbe provocare una ritirata più o meno veloce di quella che semplificando chiamiamo globalizzazione. In Thailandia, ma più in generale nei Paesi manifatturieri emergenti del Sud-Est asiatico, che tipo di ragionamenti circolano su questi scenari?
«Direi che la parola chiave in questo momento di “risacca” della globalizzazione è regionalizzazione. Le catene del valore si sono accorciate, perché devono tenere conto dei rischi geopolitici come di quelli legati ad eventi imprevedibili come le pandemie. Ecco che si persegue un rapporto più stretto con i Paesi appartenenti alla propria regione. Potremmo parlare di cerchi concentrici, a partire dall’Asean, per estendersi poi a Cina, Giappone, Corea del Sud, e successivamente a India, Australia e Nuova Zelanda. Il rapporto con gli Stati Uniti è contraddistinto da un’alleanza militare che risale al 1955 e che è oggi ancora molto robusta, con esercitazioni militari congiunte (Cobra Gold è la principale) e sforzi per aumentare l’interoperabilità delle forze armate dei due Paesi. Anche la Cina tuttavia sta facendosi largo in questo campo».
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