Lo spazio geopolitico del Mediterraneo Globalizzato abbraccia, come illustrato in precedenti articoli, tutte quelle nazioni che, a prescindere dalla continuità geografica, influenzano le vicende del Mare Nostrum. Ognuno di tali paesi è mosso dai propri interessi di lungo periodo, con una dinamicità che negli ultimi mesi è stata fin troppo evidente in particolare nelle vicende ucraine, libiche e siro-irachene, che si sono sovrapposte allo storico conflitto arabo- israeliano. Le vicende attuali si differenziano da quelle della Guerra Fredda che per 50 anni, “globalizzando” la Geopolitica e la Geostrategia del Mediterraneo, aveva congelato le tensioni endemiche del bacino attraverso un bilanciamento di forze che imbrigliava i possibili conflitti e preveniva l’emergere di potenze regionali. Una sorta di “soglia di controllo” stabilita dalle due Superpotenze: gli altri potevano solo adeguarsi. Questo stabile, e tutto sommato rassicurante sistema di potere bipolare, oggi non esiste più ed anche nuovi attori con aspirazioni globali (Cina) hanno iniziato ad esercitare un’influenza sull’area, confermandone la centralità e la rilevanza mondiale, ben al di là degli angusti passaggi di Suez e Gibilterra. La crisi attuale ha la sua genesi nel ventennio dal 1989 al 2010, caratterizzato da un lento, ma inarrestabile, riemergere di tensioni a cavallo delle millenarie direttrici del bacino: Nord-Sud, Est-Ovest. Sorprendentemente, però, si è dovuto attendere “La Primavera Araba” ed il recente emergere dello “Stato Islamico” affinché i media e le opinioni pubbliche dei paesi più sviluppati del Mediterraneo Globalizzato si scuotessero dal torpore della Guerra Fredda. I conflitti nell’ex-Jugoslavia, le immigrazioni di massa dai Balcani, l’irrisolta questione mediorientale e la progressiva riduzione degli spazi marittimi internazionali fornivano già venti anni fa la percezione di una crescente e pericolosità instabilità, ma l’illusione politica di trovarsi “alla Fine della Storia”[1] ha forse ritardato la presa di coscienza di problemi che tutto sommato non avevano mai lasciato questa tormentata area geopolitica. Nel corso dei secoli il bacino Mediterraneo ha attraversato periodi di maggiore o minore prosperità economica. E’ però interessante notare come la relativa decadenza economica successiva alla scoperta del Nuovo Mondo, pur diminuendo le risorse a disposizione di Re e Governanti, non ha affatto modificato la conflittualità esistente, frutto di una dimensione politica in costante evoluzione. I profondi e continui cambiamenti nei confini politici ed amministrativi sono il frutto della costante ricerca di nuovi spazi terrestri e marittimi, alimentati dalla competizione tra popolazioni nomadi e stanziali e dalle tensioni nate nel centro dell’Europa. Dallo scontro navale di Lepanto fino all’operazione Unified Protector i termini reali del problema non sono cambiati nella loro essenza. Le profonde asimmetrie nelle dimensioni antropologiche ed economiche tra le “Sponde cardinali” del bacino è, infatti, da secoli il volano ideale per quello “scontro di civiltà” ipotizzato da Samuel Huntington[2] negli anni ’90, e più recentemente formalizzato dall’ex-Segretario di Stato USA Henry Kissinger che le ha definite come le incompatibili concezioni del cd. “Ordine Mondiale”. Dal punto di vista antropologico uno dei fattori decisivi è la forzata coabitazione tra le tre grandi religioni monoteiste, che ad oggi, dopo quasi due millenni non può dirsi riuscita. Ognuna di esse declina un proprio sistema di valori “privati” e “pubblici” cristallizzatosi nel corso dei secoli e che crea, a meno di sporadiche convergenze giudaico-cristiane, più occasioni di contrasto che di vero dialogo. Ad esempio i tentativi di riconciliazione verso le più influenti società europee (Inghilterra, Francia, Germania e Italia) da parte dell’Islam “moderato” sono costantemente frustrati dalle barbarie perpetrate dai sunniti dello Stato Islamico in Libia e nel Vicino Oriente. In merito alla dimensione economica le attuali asimmetrie hanno profonde radici “naturali” – si pensi alla distribuzione delle aree coltivabili – ma sono state rinforzate nel tempo da scelte miopi di molti governi che hanno legato la propria economia ai soli ricavi della vendita di idrocarburi (i cd. “rentier state”). Le crescite economiche, sia ad Occidente che ad Oriente, hanno goduto di un solido e vario approvvigionamento di risorse naturali, e su di un adeguato sostentamento del ciclo produttivo con operai, tecnici ed ingegneri. Queste condizioni appaiono oggi difficilmente riproducibili nell’area MENA[3], mentre i paesi Balcanici e del Mar Nero hanno potenzialmente maggiori chance di riuscita. Dal punto di vista energetico, i grandi produttori di petrolio e di gas continueranno ad usare il Mediterraneo come snodo di transito del traffico verso i grandi consumatori in Europa e nel continente americano. Tuttavia, le recenti scoperte energetiche in aree prospicienti Israele-Cipro (giacimento Leviathan) e l’Egitto (giacimento Zohr dell’ENI), nonché le nuove ricerche in Adriatico, potrebbero cambiare, a similitudine di quanto avvenuto con lo “shale oil” USA, gli attuali equilibri macro-economici, indebolendo i proventi russi e dei Paesi del Golfo Persico. L’ultimo rilevante ambito di scontro economico riguarda le scarse risorse marine e biologiche del Mare Nostrum per le quali gli stati rivieraschi, in applicazione dei dettami della Convenzione di Montego Bay, stanno continuamente riducendo la ristretta porzione di “Alto Mare” disponibile per gli usi della Comunità Internazionale. La vastissima e contestata Zona di Protezione Ecologica, dichiarata nel 2005 dalla Libia, ne è un esempio tipico. Le politiche di partenariato e di sviluppo economico condotte in particolare dall’UE potranno, nei prossimi venti anni, attenuare, ma non eliminare, le storiche e ineguali condizioni di benessere dei popoli Mediterranei che rappresentano il vero combustibile della permanente instabilità politica dell’area. La dimensione militare individuabile dalla distribuzione degli armamenti convenzionali, dalla disponibilità di “armi di distruzione di massa” e, infine, dalle capacità di Comando e Controllo satellitari e dei nuovi strumenti di cyberwarfare è connessa con due soli fattori: budget della Difesa e i sistemi industriali-militari. Nel Mediterraneo Globalizzato i vari paesi possono essere suddivisi in tre grandi gruppi. Una “Sponda Nord” – Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna, Israele – fortemente tecnologizzata ed esportatrice di sistemi d’arma che rappresenta da solo oltre il 50% delle spese militari del pianeta. La “Sponda Sud” – Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Libano – è invece un’importatrice netta di tecnologia militare. Infine un folto gruppo di paesi che appartengono ad una “Sponda Intermedia” – Turchia, Grecia, Ucraina , Romania, Croazia, Bulgaria, Slovenia – pur ricorrendo a sistemi stranieri è comunque in grado di progettarne e produrne in modo autonomo. Un caso a parte è rappresentato dalla Cina (2° budget militare del mondo), unico paese in rapida ricollocazione verso la “Sponda Nord”, grazie al prodigioso boom economico degli ultimi anni ed al progressivo affrancamento dalla tecnologia di origine russa. Sul piano nucleare, alla strategia di deterrenza globale condotta da USA, URSS, Francia e Regno Unito si è affiancata, nel corso degli anni ’80, quella di Israele. Questi, pur non avendo mai ufficialmente ammesso il possesso di armi nucleari, pare disporne con vari vettori (incluso sottomarini) garantendosi un rilevante margine di sicurezza contro l’aggressività di alcuni vicini (Iran in primis). I membri NATO della “Sponda Nord” e di quella “Intermedia” hanno dal canto loro in corso il progetto di “Difesa da Missili Balistici”, chiaro segnale della volontà americana di non lasciare, in questo delicato settore, pericolosi vuoti geostrategici sui fianchi Est e Sud dell’Alleanza. I fattori fin qui analizzati rendono il bacino protagonista di lungo periodo della Geopolitica e Geostrategia Mondiale a dispetto del recente focus dell’Amministrazione Obama verso le acque del Pacifico – il cd “Pivot to Asia”– che non deve promuovere nell’immaginario collettivo una frettolosa marginalizzazione dell’area. Le ormai frequenti crociere operative di gruppi navali cinesi in tutto il Mediterraneo[4] hanno confermato che la politica di rango internazionale non ammette vuoti di potere. Il disimpegno americano, in quello che per venti anni è stato il “Mare Internum” USA e NATO, ha creato nel corso del 2015 l’occasione per esercitazioni navali congiunte tra Russia e Cina: un evento impensabile fino a pochi anni fa. Le asimmetrie politiche, antropologiche ed economiche descritte hanno generato nel tempo una dimensione militare il cui effetto più vistoso è la proliferazione di armi convenzionali e nucleari anche in paesi politicamente instabili. Questi fattori non ammettono oggi alcuna ipotesi di disimpegno da parte dei tradizionali egemoni del bacino – USA ed Europa – che, al contrario dovrebbero approfittare dell’attuale momento di crisi per lanciare politiche coraggiose e innovative[5], che prendano il posto dei molti deboli e contraddittori accordi di Partenariato e Dialogo tra Nord e Sud i cui contorni troppo sfumati non possono creare vera sicurezza. L’unico vero periodo di stabilità secolare nell’area è stata la violenta, costosa, ma efficace “Pax Romana”, durante la quale l’Impero rappresentò l’unico ed affidabile garante dell’ Ordine internazionale. La chiarezza d’intenti e la fermezza militare dei nostri antenati andrebbe oggi riproposta in chiave moderna, facendo leva sul sistema di alleanze politiche, economiche e militari già disponibili nel mondo “Occidentale” – NATO, UE – diffidando di avventure politiche solitarie che hanno, anche di recente, dimostrato la loro inefficacia nel mutabilissimo e a volte indecifrabile “Mediterraneo Globalizzato”.
Manuel Moreno Minuto
Analista Militare
[1] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992 [2] Samuel P. Huntington, The Clash of civilization?, Foreign Affairs ,1993. [3] Middle East North Africa. [4] La recente evacuazione di civili dalla Libia nel 2011 s’inquadra nel più ampio quadro delle attività di presenza e “show the flag” condotte dalla marina cinese. [5] Un recente convegno del Febbraio 2015 tenutosi alla Farnesina sulla necessità di un Piano Marshall Euro-Americano per il Mediterraneo è un chiaro sintomo di questa esigenza.