L’analisi delle interconnessioni presenti nel “Mediterraneo Globalizzato” deve necessariamente comprendere anche la “Dimensione Militare”, principale (e generalmente più diffuso) fattore di potenza nelle relazioni Geostrategiche[1].
Una analisi iniziale tiene conto della distribuzione degli armamenti convenzionali (terrestri, navali, aerei), della disponibilità di “armi di distruzione di massa” e delle possibilità offerte dai sistemi di Comando e Controllo satellitari e dalla cyberwarfare, oltre a valutare i budget della difesa degli Stati (ed i collegati sistemi industriali) nonché tener conto della disponibilità di ordigni nucleari, vere “leve strategiche” per sostenere ambizioni militari e politiche.
La disponibilità di ordigni di distruzione di massa (nucleari, batteriologici e chimici) da parte di gruppi terroristici, pur rappresentando un serio problema per la sicurezza del bacino, non è in genere annoverata tra i fattori geostrategici di lungo periodo, solitamente interessanti entità statali consolidate e definitive[2].
Fonti autorevolissime[3] indicano che quasi il 65% dei bilanci militari fa capo agli Stati che impegnano, in maniera sporadica o continuativa, le acque del Mare Nostrum e le aree adiacenti: Stati Uniti (610 miliardi USD), Cina (216 miliardi USD), Russia (84 miliardi USD), Regno Unito (60 miliardi USD), Francia (61 miliardi USD), Italia (31 miliardi USD), Israele (15 miliardi USD), Spagna (13 miliardi USD).
Naturalmente, non tutti i budget di questi Stati si riversano interamente in quest’area. La rilevanza del Mediterraneo Globalizzato è comunque ben evidenziata dalla decennale coabitazione di tre grandi flotte: la VIth Fleet Americana, la Va Eskadra Russa ed i gruppi Navali della NATO. Questo delicato equilibrio militare si è incrinato nel corso della crisi ucraina, determinando, da parte russa, l’esigenza di dare maggiore risalto alla propria presenza in Mare Nero, con l’assegnazione di ben sei sottomarini convenzionali Project 636 Varshavyanka alle basi di Novorossiysk e Sebastopoli.
Circa l’industria militare, i Paesi facenti parte del Mediterraneo Globalizzato possono essere suddivisi in una “Sponda Nord” (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Italia, Spagna, Israele) altamente tecnologizzata e produttrice di sistemi d’arma avanzati, ed una “Sponda Sud” (Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Libano), tecnologicamente meno dotata ma pronta a significativi acquisti[4].
A livello navale, ad esempio, i recenti sforzi del Marocco per acquisire un sottomarino convenzionale russo Classe Amur e la consegna alla Marina Algerina di una nave per operazioni anfibie Kalaat Beni Abbes, costruita dall’italiana Fincantieri[5], sono la rappresentazione di questa asimmetria.
Tra le due “Sponde virtuali” esiste un raggruppamento di stati, che, in relazione alle proprie esigenze di sicurezza, sono sia produttori che importatori di tecnologia militare, con disponibilità differenziate: Turchia (23 miliardi USD), Grecia (5 miliardi USD), Ucraina (4 miliardi USD), Romania (2,5 miliardi USD), Croazia (900 milioni USD), Bulgaria (900 milioni USD), Slovenia (500 milioni USD).
Oltre i limiti del Mediterraneo geografico, il più grande importatore di piattaforme e sistemi d’arma è l’Arabia Saudita con un bilancio militare di circa 81 miliardi USD. Altri grandi acquirenti sono gli Emirati Arabi (23 miliardi USD), il Bahrain (5 miliardi USD), il Kuwait (circa 5 miliardi USD) ed il piccolo Qatar che nel 2014 ha fatto acquisti per 24 miliardi di dollari: per avere un termine di paragone è circa l’80% del bilancio italiano dedicato.
Un discorso particolare merita la Cina che, grazie al boom economico e tecnologico dell’ultimo ventennio ha iniziato un graduale processo di affrancamento dalla tecnologia russa, imponendosi alla ribalta internazionale con alcuni progetti d’avanguardia come il caccia stealth di quinta generazione Chengdu J20.
Alcuni paesi, in virtù della loro scarsa capacità economica, quali Albania (135 milioni USD), Montenegro (138 milioni USD) e Malta (60 milioni USD) o della mancanza di un governo unitario (Libia e Siria), sono esclusi da questa breve analisi.
Le asimmetrie sin qui esaminate nei budget e nei collegati sistemi industriali creano ovviamente grandi disparità nelle potenzialità degli strumenti militari. Nei paesi della Sponda Nord prevalgono Forze Armate professionali che, seppur in costante riduzione numerica e finanziaria, traggono dalle tecnologie più avanzate, nonché dalle sinergie operative con gli alleati (in particolare in ambito NATO), la capacità di condurre importanti operazioni. Ne è un esempio Unified Protector del 2011, il cui successo è da accreditare alla capacità di coordinare efficacemente, ed in breve tempo, azioni cinetiche e risorse intelligence di tutte le organizzazioni militari impegnate.
Diverso è il caso di Israele, dove l’isolamento politico del Paese è compensato sia dall’esteso ricorso alle più avanzate tecnologie, sia dal mantenimento di cospicui contingenti di coscritti la cui permanenza alle armi (3 anni per gli uomini e 21 mesi per le donne) consente elevati standard di addestramento.
Il blocco dei paesi Nord Africani e quelli del Levante Mediterraneo (a meno della Turchia), pur investendo importanti risorse finanziarie[6] in mezzi e tecnologie, continuano ad avere evidenti limiti operativi. In alcuni Paesi tali vincoli sono parzialmente colmati dal ricorso a contingenti di coscritti in cui la quantità tuttora prevale sulla qualità.
La NATO, nel Summit 2014 in Scozia, ha chiarito che, tra le sue priorità, riveste un ruolo essenziale il consolidamento delle capacità militari degli Alleati più deboli (in particolare nel Mar Nero) e dei paesi potenzialmente amici. Tra le scelte operate va ricordata la creazione di una nuova forza di Reazione Rapida (Very High Readiness Joint Task Force), l’intensificazione dell’addestramento congiunto (Connected Forces Initiative) ed il consolidamento di un partenariato operativo e tecnologico (Partnership for Peace, Framework Nations etc). Tuttavia, il divario esistente lungo gli assi est-ovest nonchè nord-sud non potrà essere colmato in pochi anni, essendo il frutto di scelte economiche, culturali e sociali profondamente dissimili tra Stato e Stato.
Sul piano nucleare, alla strategia di deterrenza globale condotta da USA, URSS, Francia e Regno Unito si è affiancata, nel corso degli anni ’80, quella di Israele che, pur non avendo mai ufficialmente ammesso il possesso di armi nucleari, le considera la propria “polizza di sopravvivenza”[7] contro l’aggressività di alcuni vicini (Iran in primis).
Il numero attuale di testate atomiche nel mondo, seppur fortemente ridotto rispetto al passato, è di quasi 16.000 (7.000 a testa per USA e Russia). La percentuale di questi ordigni dislocata nel Mediterraneo (oppure in grado di raggiungerlo) non è ovviamente nota ma fonti aperte attribuiscono 80 testate ad Israele, 225 agli inglesi, 300 alla Francia. Il programma di sviluppo nucleare iraniano, rallentato da un duro ma vincente negoziato ed il serio impegno dell’Alleanza Atlantica[8] nel progetto di “Difesa da Missili Balistici” sono chiari segnali della volontà americana di non lasciare, in questo delicato settore, pericolosi vuoti geostrategici.
La distribuzione del potere militare nel Mediterraneo Globalizzato, piaccia o meno, sta subendo una lenta ma costante trasformazione. Le recenti esercitazioni navali congiunte tra Russia e Cina (Joint Sea/Naval Interaction 2015) ed il trascinarsi del conflitto ucraino confermano questa tendenza e, nonostante la cinquantennale presenza Americana, il Mare Nostrum non è più esclusivo appannaggio delle forze NATO.
Il recente riorientamento dell’amministrazione Obama sulle vicende asiatiche, in contrasto con la palese tendenza da parte delle altre potenze di essere militarmente presenti sul palcoscenico Mediterraneo[9], stanno creando le condizioni per una nuova corsa agli armamenti a cui il nostro Paese, in virtù della sua posizione e di un alleato (gli USA) sempre più remissivo, non potrà facilmente sottrarsi.
Manuel Moreno Minuto
Analista Militare
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[1] Cfr. Carlo Jean: “Appare in sostanza preferibile riferire i due termini a campi specifici: a quello della politica apparterrebbe la geopolitica, intesa come definizione dei fini, degli obiettivi e delle grandi scelte circa i mezzi (diplomatici, economici, militari, ecc.) disponibili ai vari soggetti geopolitici per conseguirli. Il termine geostrategia si dovrebbe invece riferire al campo specificamente militare, subordinato e strumentale alla politica”. http://www.treccani.it/enciclopedia/geopolitica_(Enciclopedia-del-Novecento)/,1998.
[2] Il riconoscimento internazionale di un gruppo terroristico, quale ad esempio la convocazione di negoziati rivolti al disarmo in cambio di concessioni politiche e territoriali, appare nell’attuale scenario un’ipotesi molto remota: l’Islamic State ne è un chiaro esempio.
[3] The Military Balance 2014, International Institute for Strategic Studies, Washington.
[4] Marocco: 4 Miliardi USD; Algeria 12 Miliardi USD; Tunisia 900 Milioni USD; Egitto 5 Miliardi USD; Libano 2 Miliardi USD). Cfr. http://www.sipri.org/research/armaments/milex/milex_database/milex_database.
[5] Cfr. https://www.fincantieri.it/cms/data/browse/news/000568.aspx. La Marina Militare Italiana ha inoltre partecipato all’addestramento del primo equipaggio algerino, cfr. http://www.marina.difesa.it/conosciamoci/notizie/Pagine/2014-11-18-taranto.aspx.
[6] Si fa riferimento non al valore monetario assoluto dei bilanci, ma alla percentuale del PIL.
[7] Questa policy include il deterrente imbarcato sui sottomarini Classe Dolphin di produzione tedesca. Cfr http://www.nti.org/analysis/articles/israel-submarine-capabilities/.
[8] In questo ambito la Turchia e la Romania ospiteranno alcuni sistemi Radar, mentre la partecipazione alla componente navale è in corso di studio presso Spagna e Olanda.
[9] Cfr. Oliver Cromwell: A British man-of- war is the best ambassador. United Service Magazine and Naval & Military Magazine Part. III, London, 1836.