Dall’Italia all’Albania in un batter di ciglia. Quando il cielo è terso e la tramontana rischiara l’aria, non è raro dalla Puglia ammirare i panorami mozzafiato della Valona. Un ponte virtuale che sembra ridurre il Mar Adriatico ad un lago, annullando la distanza tra le due coste.
Eppure, spesso ci scordiamo di quanto l’Italia e i Balcani siano vicini, non solo geograficamente ma anche per cultura, economia e storia. Una comunanza nel destino che dovrebbe spingerci a tenere la finestra aperta e guardare al di là dell’Adriatico soprattutto nei momenti di crisi, spesso comune e interconnessa. Si potrebbe tornare indietro alle vicende di Lepanto, Napoleone o agli arbori della Prima guerra mondiale per tracciare l’evoluzione storica degli eventi e sottolineare come i nostri rapporti, così come quelli tra Europa e Balcani, siano di vitale importanza. Non solo. Le difficoltà attuali nascono da queste relazioni, e la loro evoluzione ha storicamente determinato la stabilizzazione o le crisi nei paesi balcanici, con ripercussioni nel contesto europeo. La situazione interna e generale dei Balcani, caratterizzata da problemi sociali, etnici, religiosi ed economici, è stata compromessa dalla recente condotta – non cristallina – adottata dalla comunità internazionale. Unione Europea in primis. Errori, incapacità e mancanza di fermezza nel riconoscere il fondamentale ruolo che i Balcani giocano per la futura stabilità dell’Europa, e non solo per la prosperità di alcuni attori che vi cercano manodopera a basso costo e prospettive di ampiamento del mercato. Un rapporto, quello UE – Balcani, fatto di promesse mezze mantenute, interessi divergenti e inadeguatezza politica. Dove le decisioni, anche urgenti, sono sottomesse a rotoli di carta burocratica, filippiche ridondanti delle migliori parole e delle peggiori intenzioni.
Un contesto perennemente a rischio deflagrazione, messo ad ulteriore repentaglio dal diffondersi anche nei Balcani dell’epidemia di Coronavirus che potrebbe fungere da fiamma incendiaria. Nel terreno lasciato vuoto dall’UE si aggira non solo lo spettro dell’USSR, nei panni della vigorosa Federazione Russa, ma anche la Turchia, forte di un neo-ottomanesimo su base islamica, e la Cina desiderosa di estendere i tentacoli della nuova via della seta.
La verità è che i Balcani non possono essere lasciati soli al loro destino, come nel 1991-92. Né dobbiamo sperare che siano gli altri ad occuparsene. Le conseguenze di un’eventuale crisi sociale, politica ed economica si ripercuoterebbero violentemente sui paesi europei, e in maniera rilevante in Italia. Vi ricorda nulla il caso dei fratelli Popa?
Balcani fondamentali ma relegati in un trafiletto a seconda pagina, nei media così come nelle politiche UE. Per meglio comprendere l’attuale situazione, i possibili scenari e gli attori geopolitici coinvolti nella regione abbiamo contattato telefonicamente il Prof. Stefano Pilotto, docente di Geopolitica al MIB di Trieste, di Storia delle Relazioni Internazionali al Mgimo di Mosca e di Storia dell’Integrazione Europea presso l’Università di Udine. Appassionato di Balcani, da anni organizza viaggi di studio con gli allievi dell’università nella regione grazie ai quali ci fornisce un’analisi non limitata alla visione accademica, ma ricca di vissuto.
La regione balcanica è storicamente caratterizzata dall’alternarsi di fasi di stabilizzazione e di conflitto. Prof. Pilotto, quali pensa che siano gli elementi chiave e i trends principali per una analisi degli sviluppi attuali e futuri nei Balcani?
Per considerare la situazione corrente nella regione balcanica è necessaria un’introduzione storica, per lo meno a partire dalle fasi finali della Guerra Fredda.
A seguito della caduta del muro di Berlino i Balcani vissero in un periodo estremamente difficile e complesso. Dopo la dissoluzione della Iugoslavia, nel 1991, si svilupparono innumerevoli conflitti in Bosnia-Erzegovina, in Croazia, nel sud della Serbia, che resero difficile la stabilizzazione dell’intera regione, dove per stabilizzazione si intende non solo la pace a livello militare ma anche la pace politica, sociale ed economica; condizioni necessarie per la prosperità e lo sviluppo delle popolazioni locali. Un passaggio storico difficilissimo, caratterizzato dalla disgregazione di entità statuali con la conseguente guerra civile, come nel caso della Jugoslavia, o dalla cruenta rivoluzione avvenuta in Romania nel 1989. Una normalizzazione più agevole, ma sempre complessa, si verificò in Bulgaria, Albania, Ungheria e nel resto della regione.
Dopo il delicato riconoscimento internazionale dell’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia jugoslava e Montenegro, la crisi regionale si concentrò nella provincia autonoma di Kosovo e Metohia, nel sud della Serbia. La volontà di indipendenza della locale popolazione di origine kosovara-albanese generò una grande pressione politica, con sviluppi militari sanguinosi che coinvolsero direttamente le potenze internazionali, in particolare gli Stati Uniti, alcuni paesi dell’Unione Europea, la Federazione Russa e la Repubblica Popolare Cinese. Un problema non ancora risolto, malgrado nel 2008 ebbe luogo la Proclamazione Unilaterale di Indipendenza della Repubblica del Kosovo. Manca infatti il riconoscimento condiviso della statualità kosovara da parte della comunità internazionale che si è “spaccata”: alcuni stati sostengono e riconoscono l’indipendenza kosovara altri sostengono la legittimità territoriale serba. Parallelamente la Repubblica di Serbia continua a mantenere una posizione di fermezza, non volendo rinunciare ad una regione dal significato culturale e simbolico estremamente importante per la sua identità nazionale.
Al di là dei processi di state bulding, gli sviluppi degli ultimi anni sono stati caratterizzati nella regione dalla grande crisi economica-finanziaria del 2008. Le ripercussioni socioeconomiche hanno colpito soprattutto la Grecia e indirettamente tutta la regione balcanica, riducendo allo stesso tempo l’opportunità dei paesi di attingere agli aiuti economici provenienti dall’Unione Europea e dai suoi stati membri più facoltosi. Va notato che gli aiuti economici e finanziari sono stati spesso utilizzati come uno strumento politico e di pressione da parte dell’UE, come nel caso della Serbia. Al paese si chiedeva come contropartita ai sussidi il nulla osta per l’indipendenza della regione del Kosovo; offerta rifiutata. La Serbia non ha ceduto ritenendo più importante il contatto con la propria terra e identità, rispetto agli appetitosi sussidi proposti da Bruxelles. Nonostante le ripercussioni economiche della crisi, l’allargamento comunitario è proseguito con l’integrazione della Croazia, nel 2013, e altri paesi erano in linea per l’approvazione della domanda di adesione. A tal fine era stato avviato il Processo di Berlino (2013), un’iniziativa diplomatica europea per promuovere la stabilizzazione dei Balcani onde incoraggiare il progressivo allargamento dell’UE a tutti i paesi dei Balcani occidentali.
Siamo così arrivati ai giorni d’oggi. La diffusione della pandemia di Coronavirus ha paralizzato anche nei Balcani la vita e le attività di questi paesi, provocando gravi conseguenze per la sostenibilità economica e sociale delle varie comunità. Le gravi difficoltà contingenti stanno spostando i processi di integrazione europea ad un futuro non ben definito.
Di recente interesse sono anche i rapporti degli stati dei Balcani con la Repubblica Popolare Cinese incardinati nello sviluppo della Belt and Road Initiative, la cosiddetta “nuova via della seta”. La questione di progetti economici e infrastrutturali resta tuttavia complessa. Si pensi al caso della Serbia, storicamente riluttante di fronte alle forti ingerenze occidentali, ha recentemente rifiutato gli aiuti economici del Fondo Monetario Internazionale, non ritenendoli in questo momento strettamente necessari e soprattutto non volendo indebitarsi per il futuro. La paura di non riuscire a ripagare queste grandi istituzioni internazionali è collegata al timore del possibile ricatto che il creditore esercita sul debitore in funzione delle decisioni politiche che devono essere prese dal paese. Quanto più la politica del debitore è in linea con la volontà del creditore, tanto più la linea creditizia può essere implementata. Queste dinamiche non vengono tuttavia salutate con favore nei Balcani, e in particolare da Belgrado.
Continuando a parlare di Serbia. Il paese è stato duramente colpito dall’epidemia di Coronavirus, con oltre nove mila casi, risorse economiche limitate e una sanità già di per sé precaria. Ritiene le esistenti problematiche sociali, etniche e religiose, possano scaturire a causa del virus in un melting pot esplosivo in Serbia così come negli altri paesi balcanici?
In relazione alla Serbia, l’amministrazione del Presidente Aleksandar Vučić era stata già messa a dura prova da una opposizione crescente nel paese che aveva accusato il governo di comportamenti autoritari, in particolare in relazione al controllo di alcuni mezzi di comunicazione di massa. Veniva imputato al Presidente della Repubblica una svolta autocratica mettendo a repentaglio la caratteristica democratica del Paese.
Credo che la diffusione del Coronavirus, con le grandi difficoltà conseguenti, possa creare una crisi politica in qualsivoglia paese europeo; Italia inclusa. Il problema nasce nel momento in cui le misure restrittive adottate per far fronte ad una pandemia che esplode in maniera incontrollata intervengano in seno allo sviluppo dell’economia. L’economia è paralizzata in molti paesi, così come in Serbia, o altamente ridotta, e questo provoca il fallimento di molte aziende. Se lo stato non ha le risorse necessarie per sostenere il settore economico-produttivo durante la crisi, questo può certamente provocare una crisi non solo sociale ma anche politica, motivata dal dissenso popolare nei confronti del governo. La Serbia è sicuramente esposta a questa possibilità, come lo sono molti paesi vicini.
Basti pensare anche alla Macedonia del Nord e al Montenegro, tutti Paesi che vivono in un equilibrio estremamente precario a livello di stabilità politica. Piccoli cambiamenti possono provocare crisi di governo. Da menzionare anche la Bosnia-Erzegovina, che è ancora estremamente condizionata dalla mancanza di omogeneità nazionale per la presenza di tre grandi etnie nel Paese. Ciascuna delle quali ha prerogative proprie e non vuole rinunciare ai privilegi acquisiti con il tempo.
Tra i paesi della regione figura anche l’Albania. Nonostante si sia distinta per gli aiuti inviati all’Italia nel momento più duro della crisi sanitaria, Tirana ha, come gli altri paesi dei Balcani, risorse limitate per far fronte alla sfida sul piano interno. Ciò non dovrebbe sorprendere, se teniamo presente che governi più solidi e potenti hanno difficoltà nel contrasto all’epidemia – come l’Italia, la Francia e la Spagna – fino ad essere costretti incessantemente a chiedere all’Unione Europea di intervenire per sostenere la propria economica. Di fronte alle prospettive che sono state pubblicate dal Fondo Monetario Internazionale riguardo la recessione nel 2020, possiamo aspettarci che molti paesi avranno un differenziale di crescita di quasi 10 punti percentuali. Secondo le stime, l’Italia passa da +0,3 nel 2019 a -9,1 punti PIL nel 2020, mentre la Serbia da +4,2 nel 2019 a -3,0 punti del PIL nel 2020. Una prospettiva che spaventa tutti, anche e ovviamente al di là del Mar Adriatico.
Nella crisi del 2008-2009, i Balcani sembravano essere colpiti in misura minore di altri paesi europei. Anche adesso in virtù della loro specificità, e forse anche del fatto di non dover obbedire a determinate normative predisposte dall’Unione Europea per i paesi membri. Questa indipendenza dall’UE può rappresentare un fattore positivo in alcuni casi, ma anche un grande svantaggio in altri, perché i paesi balcanici rimarrebbero esclusi, in gran parte, se l’UE decidesse di intervenire a sostegno delle economie comunitarie.
Crisi sanitaria, economica e sociale. Un trittico potenzialmente esplosivo per i Balcani, regione spesso dipendente dai sostegni economici internazionali. L’Europa sembra distante e, il terreno lasciato vuoto viene occupato dalle altre potenze. Mentre Russia e Cina cercano di accrescere la propria influenza politica, la Turchia rafforza la propria proiezione regionale facendo leva sulla “fratellanza musulmana” per rafforzare la mezzaluna sunnita, da Ankara a Pristina. Professore, quali sviluppo nella geopolitica dei Balcani e nel risiko degli aiuti?
Il Presidente serbo Vučić in un’intervista aveva detto in maniera esplicita che l’Unione Europea non era assolutamente affidabile e che i nuovi amici della Repubblica di Serbia sono la Russia, ovviamente, ma anche la Cina. Paesi che sono stati più efficaci e veloci nel fornire aiuti ai paesi in crisi. Questo lo si è visto chiaramente anche in Italia. La Russia ha mandato cento medici e vari aerei pieni di materiale medico, aiutando l’Italia in maniera molto tempestiva. Al contrario, l’Unione Europea è stata molto più lenta e ancora non si è visto nessun aiuto da Bruxelles, nonostante il Consiglio Europeo abbia approvato recentemente delle misure in questo senso che saranno però attive dal primo giugno. Gli Stati Uniti, che storicamente hanno giocato un ruolo rilevante nella regione dell’Europa occidentale, sono stati estremamente esitanti nel concedere degli aiuti. La Nato ha fatto molta propaganda sulla stampa ma a livello pratico concreto non credo che sia stata molto efficace nel sostenere i propri membri. È chiaro che stante così la situazione i paesi dei Balcani credano molto di più nel potenziale delle potenze asiatiche che in virtù di processi decisionali rapidi sono in grado di fornire aiuti diretti.
La Turchia effettivamente sente la responsabilità nella regione, soprattutto nei confronti della Bosnia-Erzegovina, dove la popolazione musulmana locale è più di un terzo del totale. Questa vasta comunità islamica guarda ad Ankara come punto di riferimento. Non dimenticherò mai quando l’anno scorso durante il viaggio di studio nei Balcani abbiamo visitato Banja Luka, la più importante città della Repubblica Serba di Bosnia. La storica moschea cittadina di Ferhadija, bruciata dalla comunità serba durante il periodo di dissoluzione della ex-Iugoslavia, è stata ricostruita e alla sua inaugurazione ha presenziato come ospite d’onore il Primo Ministro della Turchia, Ahmet Davutoglu. Turchia quindi come faro politico e religioso non solo per la comunità islamica di Bosnia-Erzegovina ma anche nel sud della Serbia, nella provincia autonoma di Kosovo e Metohia, e all’internodello stesso territorio serbo, per esempio nella città di Novi Pazar, dove il 70 per cento della popolazione è di fede musulmana. Il retaggio di quello che fu il grande Impero Ottomano rimane in varie zone dei Balcani. La Turchia sente la responsabilità storica, culturale e religiosa nei confronti di queste numerose comunità islamiche sparse nei vari paesi. Bisogna tuttavia notare che al momento la Turchia è fortemente impegnata sul fronte sud, di fronte alla Siria e alla questione curda, dove l’attuale popolarità internazionale dei curdi e le loro aspirazioni ad ottenere una autonomia statuale rappresentano per Ankara un problema rilevante. Erdogan, quindi, non rinuncia ad una proiezione nei Balcani, sfruttando il potenziale culturale e religioso, ma allo stesso tempo questa regione non rappresenta, in questo periodo, la sua priorità politica.
«La Cina non ha un partner più affidabile e un amico più sincero della Serbia” – Alessandro Vučić, Presidente serbo
«In un momento difficile come questo, noi stiamo anche costruendo la nostra politica futura. La Serbia ricorderà sempre coloro che l’hanno aiutata» Aleksandar Vulin, Ministro della Difesa serbo
«Neanche una sola maschera è arrivata dai paesi dell’Unione Europea»Kasimir Donchev Karakachanov, Ministro della Difesa bulgaro
La Repubblica Popolare Cinese da alcuni anni ha invece investito tempo, risorse e diplomazia per preparare il terreno ad una nuova cooperazione nei Balcani in relazione alla nuova via della seta. La Cina è presente in tutti i paesi balcanici e viene salutata molto positivamente.
La Russia ha storicamente una presenza radicata nella regione, soprattutto nei confronti della Serbia dove intrattiene proficue relazioni con il Presidente Vučić. Non sappiamo se in futuro nuove amministrazioni serbe possano cambiare indirizzo di politica estera, ma per il momento il rapporto russo-serbo è stabile e forte.
Professore, abbiamo parlato di Covid-19, Balcani e potenze straniere. Chiudiamo con un tweet sul ruolo di Bruxelles?
Concludo con il mio auspicio che i Balcani vengano sempre più considerati a livello europeo. È una parte dell’Europa che merita attenzione ed impegno. La speranza è che l’Unione Europea si dimostri non un’istituzione faziosa, che sostiene solo una delle parti, ma che assista in maniera neutrale tutte le componenti della regione balcanica e ciò aumenterebbe anche la sua credibilità. A quel punto l’UE diventerebbe un riferimento autorevole per i paesi balcanici che negli ultimi tempi hanno perso fiducia nel progetto europeo, in particolare la Serbia. Si deve perciò portare avanti gli interessi complessivi dell’Unione e dei suoi membri e non una parte di quelli, solo perché cari agli interessi degli Stati Uniti.
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