di ANDREA MARCIGLIANO
Il perdurare delle tensioni interne in Siria – di queste ultime ore gravi “incidenti”, con morti e feriti, alla periferia di Damasco e nella città orientale di Deir al Zor – nonché l’ormai comprovata incapacità di Washington di spingersi oltre la pubblica deprecazione degli avvenimenti, prefigura scenari tanto problematici, quanto “interessanti”. Interessanti, ovviamente, nel senso dell’antico augurio confuciano: “Che tu possa vivere in un’epoca interessante”, ovvero in un’epoca di forti trasformazioni e, quindi, inevitabilmente pericolosa. E, anche qui, la definizione di “pericolosa” va intesa in senso etimologico, da “periculum” che indica qualcosa che si trova “sul confine”, e, quindi, in una posizione ambigua.
Il pericolo, in questo caso, è rappresentato in primo luogo dall’ennesima riprova del basso profilo della politica estera dell’attuale Amministrazione statunitense, travagliata da divisioni interne e guidata da un Presidente che come “Comandante in Capo” si sta sempre più rivelando una sorta di “Re Travicello”, al punto di dare l’impressione di essersi fatto dettare l’Agenda degli interventi interventi in Nord Africa dai britannici e, soprattutto, dai francesi. E proprio l’Eliseo, che è stato il grande promotore di un intervento militare in Libia che suscitava – e continua a suscitare – fortissime perplessità sia a Foggy Bottom sia, soprattutto, nelle stanze del Pentagono, sembrerebbe essere, in questo momento, il principale sostenitore di un analogo comportamento nei confronti della Siria di Bashar el Assad. Dietro alla politica di Sarkozy al solito gli interessi petroliferi francesi – essendo la costa siriana un potenziale, interessante terminale di future pipeline – nonché la memoria storica dell’antica “grandeur”, sempre influente sulle scelte strategiche di Parigi. Infatti non va dimenticato che la Siria, alla fine della Grande Guerra, divenne un protettorato francese nella spartizione delle aree di influenza fra le potenze dell’Intesa dopo lo smembramento dell’Impero Ottomano.
Tuttavia, mentre le pressioni interventiste francesi trovano sempre maggiori resistenze sia a Washington, sia nelle principali Cancellerie europee, già provate dal prolungarsi del conflitto libico oltre i limiti originariamente previsti, sulla scena siriana sembra sempre più affacciarsi un nuovo attore: la Turchia. Ankara, infatti, si trova ogni giorno di più direttamente coinvolta da una crisi che spinge verso i suoi confini decine di migliaia di profughi, ed inoltre appare sempre più chiara la volontà del governo di Erdogan di ritagliare alla Turchia un ruolo determinante di potenza geopolitica regionale in tutto il quadrante che fu, per secoli, dominio (o protettorato) della Sublime Porta. Di qui i ripetuti avvertimenti lanciati a Damasco dal Ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu – che è anche il principale teorico della nuova geopolitica di Ankara – che si è spinto addirittura a minacciare un intervento militare per garantire una cintura di sicurezza fra Turchia e Siria.
La Turchia, infatti, appare preoccupata sia di rafforzare la propria immagine di “potenza protettrice” presso i paesi arabi sunniti del Medio Oriente e del Maghreb, sia di evitare che un – per ora solo ipotetico – tracollo del regime di Assad, provochi in Siria una situazione caotica di guerra civile consimile a quella libica. Situazione che potrebbe portare allo smembramento del paese, con l’emergere di aree controllate dal fondamentalismo jihadista e, soprattutto, con il rischio del costituirsi anche in Siria di un Kurdistan di fatto indipendente, che andrebbe a confluire con il vicino Kurdistan irakeno sempre più vicino all’autodeterminazione visto il processo di disgregazione in atto a Bagdad e dintorni. E vista anche il prevalere, a Washington, delle tesi di cui è fautore il vice-presidente Joe Biden, che vorrebbero lo smembramento dell’Iraq in tre “stati” di fatto indipendenti: il Sud agli sciiti, il centro ai sunniti ed il nord, appunto, ai Curdi. E se c’è una cosa che Ankara non può permettere è proprio il costituirsi di un Kurdistan irakeno-siriano che finirebbe con l’esercitare un’irresistibile attrazione sulle province turche a maggioranza curda.