Il fallimento delle trattative tra l’AKP del Presidente Erdogan e l’opposizione repubblicana, di ispirazione kemalista del CHP, apre nuovi scenari alla politica turca. Infatti è palese che il Primo Ministro uscente, Ahmet Davutoglu, dovrà lasciare il suo incarico e, presumibilmente, ritirarsi per fare posto a qualcuno che possa riaprire il dialogo tanto con il CHP, quanto con i nazionalisti dell’MHP. Davutoglu è certamente una grande personalità intellettuale, il massimo teorico della nuova geopolitica turca, colui che ha delineato in questi anni la strategia di Ankara sulla scena internazionale, ma altrettanto indubbiamente manca del peso politico e del carisma necessario per risolvere l’impasse in cui versa la Turchia sin dalle ultime elezioni, che hanno visto, per la prima volta, l’AKP non in grado di reggere da solo il governo del paese e reso obbligatorio cercare un governo di coalizione. Esperimento che, tuttavia, Davutoglu non può guidare perché considerato dalle opposizioni troppo strettamente legato al Presidente Erdogan. Considerazione forse ingiusta, visto che, a quanto sembra il Primo Ministro non era proprio perfettamente d’accordo con il “Sultano” sulla svolta presidenzialista che questi voleva imprimere alla Costituzione e che, di fatto, è stata bocciata dalle urne.
Comunque, fuori gioco Davutoglu dopo il fallimento nelle trattative di queste ultime ore, serve un nuovo Premier capace di costruire un governo di coalizione con i kemalisti e, forse, anche con la destra nazionalista. Un governo, ovviamente, di transizione, che prepari a nuove elezioni entro il prossimo Novembre, e che nel frattempo sia, però, in grado di gestire i difficili dossier sul tavolo di Ankara. In particolare da un lato il massiccio intervento militare contro lo Stato Islamico in Siria, dall’altro il rinnovato conflitto con i curdi del PKK. PKK che ha scatenato nell’ultimo mese una violenta offensiva terroristica, rompendo la tregua stabilita fra il suo leader storico Ocalan ed Erdogan; una scelta radicale che ha portato all’offensiva turca e che, per altro, è stata sconfessata tanto dallo stesso Ocalan, ormai esautorato da una nuova leadership, quanto dal leader dei curdi iracheni Barzani.
Per altro, proprio queste due crisi potrebbero servire da collante per un governo di coalizione: infatti tanto i repubblicani quanto i nazionalisti sono decisamente avversi sia ad ogni accordo con i curdi, sia all’isolamento radicale rappresentato dall’IS, e questo dovrebbe, appunto favorire il dialogo con l’AKP. Quello che, però, ha, sino ad ora bloccato le trattative è il fatto che i due partiti di opposizione non sembrano disposti a concedere fiducia ad Erdogan, del quale temono le mire. E soprattutto che, in eventuali nuove elezioni, possa ottenere i seggi sufficienti per procedere alla modifica della Costituzione. Cosa non impossibile, soprattutto se il partito filo-curdo, HDP, rivelazione delle ultime elezioni, dovesse perdere voti in seguito al terrorismo del PKK, al quale viene considerato troppo vicino.
Serve quindi una personalità politica “terza”, che, pur essendo espressione del partito di maggioranza AKP, sia considerata indipendente da Erdogan. E questi non può che essere Abdullah Gul, l’ex Presidente della Repubblica, solo apparentemente uscito di scena dopo la fine del suo mandato nel 2014. In realtà Gul si è chiamato fuori per distinguere in modo sempre più marcato le sue posizioni, e di fatto oggi incarna l’altra anima dell’AKP. Un’anima più aperta e dialogante sia con le altre forze politiche turche, sia con gli alleati tradizionali – Washington in testa – sulla scena internazionale.
Se sarà, come probabile, Gul a guidare il governo di transizione/coalizione a portare la Turchia a nuove elezioni, la politica di Ankara subirà una svolta di proporzioni difficili da valutare in questo momento, ma certo colossali. E destinata, pertanto, ad influire su tutti gli equilibri internazionali.
Andrea Marcigliano
Senior fellow de “Il Nodo di Gordio”
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