Sul tavolo denaro, isole, ma anche i Fratelli Musulmani
Giovedì 7 aprile il re saudita Salman bin abdulaziz si è recato in Egitto per una visita di 5 giorni dove, con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, ha concluso svariati accordi bilaterali tra cui la creazione di un fondo di investimento di 16 miliardi di dollari. Con la morte di re Abdallah i rapporti tra i due paesi si erano notevolmente raffreddati, nonostante al-Sisi e Salman cerchino di mostrare sempre al pubblico quanto i rapporti tra il Cairo e Riyad siano idilliaci. Questa storica visita può essere interpretata come un’abile mossa del monarca saudita per stringere maggiormente a sé un alleato i cui interessi hanno iniziato a divergere su svariati dossier negli ultimi anni.
L’ex capo dell’esercito egiziano è sempre stato sostenuto dai petrodollari sauditi che gli hanno permesso di spodestare il presidente Mohammed Morsi, esponente della Fratellanza Musulmana e primo Capo di Stato eletto democraticamente nel 2012, e farsi eleggere a sua volta presidente nel giugno 2014. Proprio la posizione sui fratelli musulmani è uno dei temi su cui le due capitali hanno iniziato a divergere con l’incoronazione di re Salman. La fratellanza, che vuole farsi depositaria di una visione più “democratica” dell’islam politico, è sempre stata repressa e perseguitata in ogni luogo e sede possibile dai sauditi così come dalla casta laica militare egiziana.
Ciò che ha fatto cambiare posizione a Riyad è stato lo sdoganamento dell’Iran nell’arena internazionale e la sua riacquisita centralità nelle dinamiche regionali; ciò ha spinto la nuova dirigenza saudita a rivedere la posizione per compattare il fronte sunnita in funzione anti-sciita (leggi anti-iraniana). Con questo allargamento di intenti i sauditi cercano di intrecciare migliori rapporti con tutte le varie diramazioni dell’islam politico sunnita in Turchia, Qatar, in Palestina con Hamas e in Yemen con Al-Islah.
Questa apertura non è sicuramente stata ben vista dal Cairo che ha già da tempo messo fuori legge la Fratellanza e la percepisce come un reale pericolo per la sicurezza del nuovo regime. Dal lato egiziano, invece, vi sono state molte aperture nei confronti di Teheran, testimoniate dai ripetuti incontri tra i rispettivi Ministri degli Esteri a latere dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Gli interessi dei due paesi si incrociano innanzi tutto sugli aspetti economici derivanti dal venir meno delle sanzioni internazionali contro l’Iran, e in secondo luogo sulla crisi siriana, dossier su cui il Cairo ha più interessi in comune con la Repubblica islamica piuttosto che con la monarchia saudita.
L’Egitto è fondamentalmente allineato con la posizione russa sulla questione siriana e la stessa élite militare del Cairo si sente molto vicina al Presidente siriano Bashar al-Assad in quanto esponente di quel nazionalismo arabo, laico e socialista che piace ai sostenitori del nuovo corso egiziano.
Anche nella guerra in Yemen l’iniziale sostegno di al-Sisi alla causa saudita è andato a scemare nel tempo. L’adesione alla coalizione saudita anti-houti, che si era concretizzata con l’invio di forze aereo-navali, si è poi fermata con il rifiuto di inviare forze di terra. Riyad non si capacita di come l’Egitto non voglia assumere un ruolo più attivo nello scenario yemenita, nonostante il pericolo derivante dalla possibile perdita del controllo dello stretto di Bab al Mandeb che potrebbe ostacolare l’ingresso meridionale al Mar Rosso; dal canto suo il Cairo non tollera l’apertura saudita nei confronti di Al-Islah, costola yemenita della Fratellanza Musulmana e “partner” anti-huiti nella guerra in corso, con la quale al-Sisi non si vuole ovviamente schierare.
Alla luce di questi antefatti la visita di questo mese è sicuramente una mossa per riallacciare i rapporti tra le due nazioni o perlomeno di smussare gli spigoli con una marea di dollari. L’economia egiziana non naviga in buone acque dopo le rivolte del 2011 che hanno spaventato turisti e investitori stranieri; il Cairo sta facendo i conti con un deficit di bilancio di 43 miliardi di dollari, un forte aumento della disoccupazione e dei debiti esteri e un altrettanto grave crisi di sicurezza nella Penisola del Sinai, per cui i massicci investimenti che sono stati presentati saranno una manna per il paese.
Tra i vari accordi vi è la costruzione di un ponte sul Mar Rosso per collegare i due paesi arabi, l’istituzione di una zona industriale intorno al Canale di Suez, la creazione di un fondo di investimento di 60 miliardi di riyal, lo sviluppo di un impianto per l’energia elettrica da 2.250 MegaWatt, notevoli investimenti per lo sviluppo agricolo nel Sinai e nel settore privato.
L’aspetto più controverso, o più che altro che ha causato più perplessità a molti egiziani, è stata la vendita da parte del Cairo di due isole per il valore di 20 miliardi di dollari. Le isole in questione sarebbero Tiran e Sanafir che si trovano strategicamente tra il Mar Rosso e lo Stretto di Aqaba, un passaggio fondamentale per i porti giordani. La loro posizione strategica è testimoniata anche dal fatto che Israele le ha occupate più volte durante i vari scontri che ha avuto con l’Egitto, nel ’56 dopo la crisi del Canale di Suez e dal ’67 al ’82, ossia dalla Guerra dei sei giorni alla firma degli Accordi di Camp David.
L’accordo sulla vendita deve ancora essere ratificato dal Parlamento egiziano la cui posizione potrebbe non essere così scontata. In molti ritengono infatti che la vendita di un pezzo di territorio nazionale sia una cessione di sovranità troppo grave. Il presidente al-Sisi, vista la situazione economica in cui versa il paese, si è dovuto piegare alla necessità di riavvicinarsi ai “fratelli” sauditi in quanto il suo regime si regge per il momento sui loro petrodollari; la domanda che rimane è quanto questo ritrovato idillio economico ammorbidirà la posizione dell’Egitto nei vari dossier tanto cari ai sauditi.
Gianluca Padovan
Esperto in problematiche russe, iraniane ed asiatiche
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