Alla vigilia dell’apertura a Pechino delle “due sessioni”, il più importante evento politico annuale, dall’altra parte del canale di Formosa il presidente taiwanese Tsai Ing-Wen inaugurava il suo nuovo mandato. Le “due sessioni”, così dette per la riunione del Congresso nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del comitato nazionale del popolo cinese, abitualmente si tenevano in marzo; l’emergenza coronavirus le ha fatte slittare fino al giorno successivo al giuramento presidenziale di Taiwan, dando il senso di un confronto programmatico fra le due repubbliche cinesi.
Il consenso interno del presidente Tsai è altissimo, grazie alla gestione riuscita dell’emergenza coronavirus: Taiwan ha avuto ad oggi solo sette decessi, nonostante il contagio sia esploso durante il capodanno lunare, quando il traffico aereo fra Taiwan la Cina continentale raggiunge il picco. Il modello taiwanese, scarsamente riportato dai media italiani, ad oggi è senza dubbio il miglior esempio di contrasto al contagio in un quadro di garanzie democratiche, cioè opposto a quello della Repubblica popolare cinese. Forte di questa storia di successo, il governo taiwanese ha proposto di nuovo all’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) la sua partecipazione, un’offerta sostenuta dal governo giapponese, storicamente alleato, e dal governo australiano, che dalla gestione virtuosa taiwanese e fallimentare cinese ha avuto. Offerta ostacolata dalla governance dell’OMS, che considera Taiwan come parte della Cina popolare, al pari d’altronde del ministro della Sanità italiano Roberto speranza, il primo d’Europa a decretare a fine gennaio il blocco dei voli dalla Cina mentre Wuhan era in quarantena. Anche in quella circostanza, il blocco dei voli in entrata in Italia fu esteso a Hong Kong e Taiwan. Se per Hong Kong vi è stata una razionalità giuridica internazionale, per Taiwan le motivazioni del blocco rimangono ad oggi decisamente oscure.
La questione dello status di Hong Kong è stata oggetto delle due sessioni, che ha deciso l’estensione della legge della sicurezza nazionale al porto insulare e hub finanziario dell’area pacifica, riattizzando le proteste solo sospese dell’emergenza sanitaria. Oltre ad essere stato il banco di prova del progetto “un paese, due sistemi” proposto da Pechino sin dagli anni precedenti il ritorno dell’ex colonia britannica alla Cina popolare, la difficoltà incontrata dalla Repubblica popolare nel gestire l’autonomia di Hong Kong si era riversata nelle elezioni presidenziali di Taiwan dello scorso gennaio, decretando la schiacciante rimonta di Tsai Ing-wen e del suo Partito democratico progressista (DPP) sul Kuomintang (KMT) e sull’opzione di integrazione con la Cina popolare. Sebbene vi sia stata una forte partecipazione ideale del DPP alla causa dei manifestanti pro-democrazia di Hong Kong, il discorso del giuramento di Tsai Ing-wen non ha speso enfasi sulla ripresa delle proteste, ma ha invece richiamato il piano generale dell’esperienza taiwanese di transizione dall’autoritarismo – quello del regime di Chiang Kai-Shek – come pietra angolare della resistenza alle pressioni e alle aggressioni da parte della Repubblica popolare. Nonostante l’isolamento internazionale, ribadito dal rifiuto dell’OMS ad accettare Taiwan, il governo taiwanese resta fermo nei valori di democrazia e libertà, e in forza di essi chiede un dialogo paritario con la Repubblica popolare cinese. Pertanto il discorso presidenziale riconosce che le relazioni fra le due sponde del Canale di Formosa hanno raggiunto un punto di svolta storico, offrendo un futuro pacifico per le due Cine. Sì, perché allo stesso tempo Taiwan non espunge la sua denominazione di Repubblica di Cina, cioè di continuità istituzionale con la prima repubblica cinese del 1912, tenendo quindi formalmente aperta la questione della rappresentanza legittima della Cina ma con la disponibilità a risolverla in un futuro assetto, concordato e paritario. Il massiccio programma di ritorno degli investimenti taiwanesi dalla Cina popolare avviato nel precedente mandato presidenziale di Tsai Ing-wen andava in tal senso, così come l’offerta dei distretti produttivi taiwanesi alle industrie multinazionali che avevano chiuso gli stabilimenti in Cina per l’epidemia. E sempre in tal senso è andato il rafforzamento della capacità militare taiwanese, a cui il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha dato nuovo slancio.
Matteo Gerlini
Sapienza Università di Roma
© RIPRODUZIONE RISERVATA