A cura di Maurizio Stefanini
Maestro della politologia italiana morto a 92 anni, Giorgio Galli è stato ricordato soprattutto da una parte come il teorico del “bipartitismo imperfetto”. Dall’altro come lo studioso del rapporto tra esoterismo e politica. Sviluppando le tesi di Maurice Duverger sul bipartitismo come forma più efficiente di democrazia, la prima tesi analizzava il “blocco” del sistema politico italiano della Prima Repubblica proprio nella chiave della “conventio ad excludendum” ai danni del Pci. Una situazione che in effetti fu superata con la fine del blocco sovietico e la socialdemocratizzazione dello stesso Pci, accompagnata dal processo referendario che portò alla Seconda Repubblica.
A quel punto però Galli iniziò a concentrarsi sull’altro filone, cui si devono titoli come Occidente misterioso, Hitler e il nazismo magico, La politica e i maghi, La magia e il potere, La Russia da Fatima al riarmo atomico. Politica ed esoterismo all’ombra del Cremlino. Ma assieme a questi due più noti, Galli percorse anche altri sentieri di indagine. Uno, anch’esso collegato all’attenzione per il “rimosso”, riguardava ad esempio ciò che “c’è dietro” al teatro della politica. E non si occupò solo di Massoneria, P2 o Trame Nere, ma anche della strategia gramsciana con cui il Pci aveva penetrato magistratura e media, fino a configurare il blocco di manovra di Mani Pulite. Un altro riguardava proprio il “teatro della politica”. La democrazia come forma di rappresentazione simbolica del conflitto che, assieme a altre simili rappresentazioni come il teatro o lo sport, nasce prima nella Atene di Pericle e poi nell’Inghilterra elisabettiana, come risposta alla sfida di minoranze di marginati radicalizzati (Dalle baccanti alle streghe).
E un altro attualissimo riguarda infatti il ruolo dell’utopia per rispondere alle crisi. Su questo punto lo avevo intervistato assieme ad altri studiosi, nel febbraio del 2009. Come a volte accade nel giornalismo, questo “giro di opinioni” non era poi mai stato pubblicato. Ma può essere allora interessante riscoprirlo ora che Galli non c’è più. Primo, perché in effetti annuncia una serie di libri che lo stesso Galli avrebbe pubblicato nel decennio successivo. Secondo perché in qualche modo pandemia e lockdown hanno fatto venire ulteriormente al pettine alcuni nodi che avevano iniziato a vedersi allora. La crisi economica mette a rischio la democrazia? Oppure proprio il ritorno della politica nell’economia rappresenta un’insperata occasione di rinascita per la partecipazione popolare?
Secondo Lucio Caracciolo, fondatore e direttore della rivista di geopolitica Limes, “questa crisi rende innanzitutto evidente il fallimento del modello di egemonia americano. Certamente si torna poi a enfatizzare la politica: ma più che la politica a regolare l’economia è chiamato lo Stato, e non necessariamente lo Stato è democratico. Anche nelle democrazie più mature si critica la lentezza dei processi decisionali: vedasi le polemiche per i ritardi che hanno avuto sia Bush che Obama per far passare in Congresso i loro per urgenti pacchetti di misure d’emergenza. Più che a un aumento della democrazia, insomma, la crisi può portare a un revival della tecnocrazia”.
Massimo esperto italiano in processi di democratizzazione, il politologo Leonardo Morlino avverte innanzitutto che “la crisi economica non ha scatenato la crisi politica, ma si limita a chiarire certe tendenze che erano già in corso”. Ovvero, “dove ci sono democrazie consolidate non c’è più alternativa alla democrazia. Ma possono affermarsi meccanismi di autoritarismo surrettizio giustificati dalla necessità di efficienza. Non crisi della democrazia, ma crisi nella democrazia: dare più spazio alla partecipazione o all’efficienza del leader che prende decisioni per tutti?”. Insomma, “il nodo dell’accountability istituzionale. Ma la tenuta della democrazia è legata più in generale alla tenuta del welfare: se cade il welfare, c’è il rischio di una crisi più profonda”. Va detto che questa nota d’allarme è in parte corretta da un’analisi sul Terzo Mondo che non è affatto pessimista.
“L’America Latina è in difficoltà, ma tutto sommato la democrazia ha retto bene moltissimi Paesi: dall’Argentina al Cile, al Brasile, all’Uruguay o allo stesso Perù. Ci sono problemi più grossi in Colombia, in Bolivia e soprattutto nel Venezuela di Chávez, dove ormai non c’è più una vera democrazia, ma un regime ibrido. Il che è paradossale, perché stando ai sondaggi quello è uno dei Paesi in cui i cittadini si dicono più favorevoli alla democrazia. Ma lì c’è di mezzo quella che possiamo definire la maledizione del petrolio. La maledizione del petrolio c’entra d’altronde molto anche in quello che sta succedendo in Russia, dopo Putin sta costruendo un regime autoritario con modalità nuove: elezioni, forma democratica, ma leader forte, gruppo di élite egemonico, controllo sulle risorse, società civile debole. Ed è anche appoggiato dall’opinione pubblica, che chiede ordine. Ma anche per lui il tallone d’Achille è il welfare”. “La globalizzazione tende a eliminare i partiti, che sono tipiche strutture da Stato nazionale. La crisi viene dunque in un momento di evaporazione delle strutture politiche che non comporta la delegittimazione delle democrazie, ma la ricerca di forme nuove”.
Appunto questa occasione di forme nuove suscita l’interesse di Giorgio Galli, gran padre nobile della politologia italiana. “Tutte le grandi trasformazione nella storia sono partite da proposte che sembravano utopiche, e questo può essere il momento dell’utopia. Per superare la crisi di una democrazia che non controlla i centri di decisione economica evitando nel contempo l’invadenza statalista si può pensare a un sistema di elezione diretta dai cittadini di parte dei consigli di amministrazione delle grandi holdings. Anche grandi teorici della liberaldemocrazia come Locke e Tocqueville oggi concorderebbero che è questa l’unica via per salvare l’economia capitalistica di mercato dalla tecnocrazia. Certo bisognerebbe farlo a livello mondiale: se lo facessero solo alcuni Paesi, tutti i capitali si sposterebbero sugli altri”. È la proposta di uno studioso proveniente da un’area di socialismo libertario: ma alla fine non troppo dissimile né da quanto dice uno storico del pensiero politico ancorato a destra come Alessandro Campi, docente a Perugia; e neanche dall’analisi di un studioso del liberalismo dichiaratamente post-crociano come Corrado Ocone, direttore editoriale della casa editrice della Luiss. “Abbiamo fatto probabilmente l’errore di identificare troppo di identificare la democrazia solo con la forma di partiti e elezioni”, osserva Campi. “In realtà ci vuole anche la sostanza di un’economia aperta, di un sistema istituzionale formalizzato, di una società che abbia veramente interiorizzato i valori democratici. Se no, è ovvio che alla prima crisi viene giù tutto.
In Occidente la democrazia è invece più forte, anche se non abbiamo avuto ancora niente di paragonabile ai grandi shock degli anni ’30, con le masse di gente disoccupate per strada. Però c’è una minaccia di svuotamento della democrazia dall’interno: clan familiari, leaderismi, tecnocrazie, una continua cultura della complessità e dell’emergenza che toglie spazio a quel dibattito che della democrazia dovrebbe essere il sale. Forse aveva ragione Gianfranco Miglio: bisognerebbe inventare forme istituzionali nuove. In fondo è da oltre due secoli che siano fermi a quel pur grande laboratorio che fu la Rivoluzione Francese”. “Non so se siamo tornati agli anni ‘30”, è l’opinione di Ocone, “ma mi colpisce la facilità con cui si passa da un estremo all’altro, e gli oltranzisti del liberismo ora inneggiano al nazionalismo. In realtà, speculazioni e vivere al di sopra delle proprie possibilità non sono il liberismo come lo definivano Einaudi o Salvemini, ma il suo contrario. E certamente c’è spazio per una terza via distinta sia dal darwinismo sociale che dal nazionalismo”.
Ma in conclusione, c’è in Europa un rischio concreto di una deriva stile totalitaria stile anni ’30? Giorgio Galli ritiene che per lo meno la forma della democrazia in Europa sia assicurata. “Al massimo c’è il rischio di evoluzioni in cui ne sarà svuotata la sostanza”. Ma Caracciolo non è sicuro neanche di questo. “Nulla è garantito per l’eternità. Neanche le democrazie”.
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