Appare, purtroppo, ormai comprovata la sostanziale incapacità del cosiddetto “Gruppo di Minsk” di trovare una soluzione diplomatica al perdurante contenzioso fra Azerbaigian ed Armenia per il Nagorno-Karabach. Incapacità dovuta agli interessi troppo divergenti fra i tre paesi, Stati Uniti, Russia e Francia che ne rivestono collegialmente la presidenza e che, di fatto ne determinano – o per lo meno dovrebbero determinare – le linee guida.
Particolarmente ambigua la posizione di Washington, sospesa, sin dagli anni ormai lontani dell’Amministrazione Clinton, fra un Congresso dove prevalgono le posizioni filo-armene – tant’è vero che gli States hanno ripetutamente stanziato notevoli fondi come “aiuti” all’amministrazione armena del Nagorno-Karabach – e la Casa Bianca, dove Clinton prima e George W. Bush poi hanno sempre cercato una mediazione con Baku, anche, e soprattutto, per non alienare rapporti essenziali a garantire gli interessi petroliferi statunitensi nel Caucaso. La situazione, poi, è venuta ulteriormente complicandosi con l’elezione di Barack Obama, le cui incertezze e ambiguità in politica estera sono ormai, drammaticamente, palesi su tutti gli scenari geo-politici mondiali. Nel Caucaso, poi, sembra che l’attuale Amministrazione statunitense manchi di qualsivoglia strategia, al di là dell’ormai radicato rapporto preferenziale con la Georgia. In sostanza sembra sempre più evidente che – perdurando l’attuale incertezza da parte del Comandante in Capo – prevalga ulteriormente la posizione del Congresso favorevole alle richieste armene.
Non meno ambigua, sotto molti profili, anche la posizione di Mosca. Anche se si tratta di un’ambiguità che trae origine non dall’indecisione del Cremlino – sarebbe infatti paradossale accusare di questo una coppia di mastini come Putin e Medvedev – bensì dal complesso intreccio geo-politico che la Russia sta tessendo. Com’è noto, infatti, Mosca ha decisamente appoggiato, nel recente passato la secessione del Nagorno-Karabach dall’Azerbaigian, favorendo in tutti i modi l’armenia e, soprattutto, mettendola in condizione di competere militarmente con il ben più attrezzato esercito azero.
Politica che, per altro, contraddiceva anzi rovesciava quella della lunga stagione sovietica, quando, appunto, gli “Zar rossi” del Cremlino sostennero sempre l’appartenenza dell’inquieta provincia alla repubblica azera. E questo anche in funzione di una strategia geopolitica volta a costruire un ponte con la Turchia; ponte costituito, appunto, dall’Azerbaigian turcofono nella sua integrità territoriale, comprendente lo snodo critico del Nagorno-Karabach. Politica abbandonata nei primi anni post-sovietici, quando a Mosca sembrò prevalere l’opzione filo-armena, in forza (anche) di legami religiosi – la comune appartenenza all’Ortodossia – e in funzione di contenimento dell’influenza georgiana.
Oggi, però, la politica caucasica del Cremlino potrebbe essere sul punto di conoscere una nuova evoluzione. Infatti, la nascita della Comunità Economica Eurasiatica ha necessariamente avvicinato mosca ai paesi turcofoni dell’Asia Centrale – in particolare il Kazakhstan che è il secondo pilastro di questa nuova realtà – aprendo così ad un più stretto dialogo con Ankara. La Turchia è, infatti, a sua volta interessata al nuovo Mercato Comune eurasiatico, sia perché irritata dalle porte che le sono state chiuse ripetutamente in faccia dalla UE, sia perché, oggi come oggi, l’ingresso nell’area dell’euro appare decisamente meno interessante.
Dunque il dialogo russo-turco – ovvero fra CEEu e Turchia – apre a nuovi scenari anche per il Caucaso e, segnatamente, per il Nagorno-Karabach. Scenari ancora tutti da definire e in costante evoluzione, tant’è che da un lato Mosca sembra meno arroccata su posizioni filo-armene e più disposta al dialogo con Baku, e dall’altro Ankara ha tentato di riaprire canali di comunicazione con l’Armenia, stemperando il proprio sostegno agli azeri. Posizione di stallo, che, in futuro, potrebbe però essere foriera di un tentativo di risoluzione della crisi azero-armena nel più vasto ambito di un mercato comune eurasiatico. Prospettiva affascinante, certo, epperò ancora lontana. Infine la Francia, che dovrebbe rappresentare in seno al gruppo di Minsk gli interessi comuni europei, ma che, al solito, appare piuttosto determinata dal proprio “particolare” nonché da questioni di politica interna. In primis elettoralistiche, visto che Parigi è da sempre molto sensibile alle pressioni della lobby armena francese.
È dunque perfettamente comprensibile il sospetto con cui baku guarda al Gruppo di Minsk ed alle sue più recenti iniziative. Un sospetto che trae origine soprattutto dalla coscienza di uno squilibrio di fondo. Infatti le posizioni dell’Armenia sono, da sempre, molto meglio rappresentate e difese al suo interno, anche in forza di un lavoro di lobby, particolarmente efficace tanto a Mosca quanto a Washington e Parigi. Esercizio di un “soft power” che ha sino ad ora messo in secondo piano le rivendicazioni – storiche e culturali – degli azeri e, soprattutto, portato a sottacere un dato oggettivo.
Il fatto che il perdurare del controllo armeno – secondo gli azeri occupazione del territorio del Nagorno-karabach e delle province limitrofe – una situazione che ha depauperato Baku quasi di un quinto del proprio territorio – sta incidendo in modo pesantemente negativo sullo sviluppo economico non solo di quella regione, ma anche, e soprattutto, di tutto il Caucaso. Con pesanti ricadute sugli scenari geo-economici globali. Pesanti in particolare per l’Europa Occidentale, che dovrebbe cominciare ad osservare la questione con maggiore attenzione, smettendo di delegarla alla sola, miope, politica di Parigi.
Andrea Marcigliano
Senior fellow
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