Il Premier turco Recep Tayyip Erdogan giunto a Washington per prendere parte alla Conferenza sulla Sicurezza nucleare, ha avuto, in margine al meeting, un colloquio bilaterale con il Presidente armeno Serzh Sargsyan. Il tema al centro dell’agenda ha riguardato la questione dei Protocolli sottoscritti con Armenia, il 10 ottobre scorso, inerenti alla normalizzazione delle relazioni fra i due Paesi.
Lo storico accordo di normalizzazione fra Turchia e Armenia, avuto luogo a Zurigo, doveva porre fine a quasi un secolo di ostilità fra i due Paesi. Alla cerimonia presero parte, oltre ai due Ministri degli Esteri firmatari – il turco Ahmet Davutoglu e l’armeno Edward Nalbandian -, inoltre la Consigliera federale svizzera Micheline Calmy-Rey, la Segretaria di Stato Usa Hillary Clinton, il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov e quello francese Bernard Kouchner. L’Europa era rappresentata dal Presidente del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, lo sloveno Samuel Zbogar e dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera di Sicurezza Comune dell’Unione Europea, Javier Solana.
La Turchia, negli ultimi tempi, si era fatta carico di una serie di missioni diplomatiche finalizzate a costruire rapporti di buon vicinato con tutti i Paesi confinanti. Nel recente conflitto del Caucaso, ad esempio, si era distinta per la proposta di una “Piattaforma per la stabilità e la collaborazione caucasica”, diretta ad equilibrare e normalizzare i suoi rapporti con tutti i paesi della regione, inclusa l’Armenia.
La normalizzazione delle relazioni bilaterali fra la Turchia e l’Armenia, da sempre pregiudicate dalla questione del riconoscimento del genocidio – i massacri di armeni avvenuti tra il 1915 e il 1917 – sembrava essere vicina come mai lo era stata in passato. Tanto che Peter Semneby, rappresentante speciale per il Caucaso, aveva avuto modo di affermare che il riconoscimento del genocidio non rappresentava una priorità nemmeno da parte dell’Unione Europea.
Tuttavia, com’è noto, il processo ha di recente subito un improvviso raffreddamento dovuto al dietrofront dell’Armenia, che, contravvenendo agli accordi intrapresi, ha avvallato il riconoscimento dell’accusa di “genocidio” formulata dal Congresso americano il 4 marzo scorso e in seguito dal Parlamento svedese, una settimana dopo. Avvenimenti di fronte ai quali la Turchia aveva impulsivamente preso la decisione di richiamare in patria “per consultazioni” il proprio ambasciatore a Washington, Namik Tan, nonché di minacciare di espulsione i migranti armeni presenti sul suolo nazionale.
Del resto il riconoscimento rappresentava una questione estremamente delicata, una precondizione che, fin dall’inizio si era di comune accordo, deciso di lasciare fuori dalle trattative e che, due anni fa lo stesso Sargysyan all’indomani dello storico accordo fra le parti sul quotidiano francese, Le Monde, dichiarava non costituire un preliminare necessario all’apertura delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi.
A dispetto di ciò, la volontà politica da parte turca di perseverare nella direzione di questa chance unica e irrepetibile verso la riconciliazione, di attenuare il voltafaccia armeno e cercare di ricucire i rapporti fra le due nazioni si è concretizzata in questo vertice.
Qualche tempo fa il Premier turco aveva inviato a Sargsyan, attraverso il Consigliere degli Affari Esteri Feridun Sinirlioglu, una missiva in cui esprimeva il proprio disagio ed amareggiamento riguardo al fatto che la questione del “genocidio” fosse stata inserita nell’agenda di terzi Paesi, ribadendo la necessità di un dibattito nelle appropriate sedi accademiche ed archivistiche nonché di accelerare i negoziati bilaterali. Chiosandola con il seguente messaggio: “Rimaniamo vincolati ai Protocolli e risoluti a portare avanti il processo”.
Il presidente armeno, da parte sua, il quale durante il meeting nella capitale americana ha sostanzialmente espresso la volontà di non accettare qualsivoglia precondizione, ha altresì scelto un luogo altamente simbolico e sintomatico per rilasciare le sue dichiarazioni dinnanzi alla stampa ed ai rappresentanti delle potenti lobby armeno-americane. Non è certo stato un caso che la location deputata all’evento risultasse essere proprio il Monumento di Woodrow Wilson, il Presidente antesignano del neoconservatorismo statunitense. Assertore questi di un’Armenia allargata che sarebbe dovuta scaturire dal trattato di pace sottoscritto fra Impero Ottomano e le Potenze alleate della Prima Guerra Mondiale, il Trattato di Sèvres (10 agosto 1920). Un documento che, fra le altre cose, intendeva ridimensionare l’impero entro i confini della penisola anatolica e che, nella visione wilsoniana, avrebbe assegnato all’Armenia parte del territorio orientale dell’attuale Repubblica di Turchia. Un atto di ossequio, dunque, al propugnatore di una Grande Armenia, al nazionalismo di questo Paese e simultaneamente uno sfregio alla proposta di normalizzazione avanzata da Erdogan che la dice lunga sulla buona fede, da parte armena, di pervenire ad un accordo.
“La Turchia non può parlare all’Armenia o al popolo armeno in termini di precondizioni”, ha detto Sargsyan, aggiungendo che: “Essa non è disposta a produrre una discussione sul genocidio”. Quindi, ha affermato che il compito di apportare luce su tale questione spetta agli armeni della diaspora. Infine, a dispetto dei vari tentativi di riconciliazione da parte turca fra Armenia e Azerbaijan, interlocutore indispensabile quest’ultimo per una normalizzazione a tutti gli effetti, si è dichiarato scettico sul ruolo positivo della Turchia nel processo di pace del Nagorno-Karabakh.
Erdogan, dal pulpito dell’università dedicata a Geroge Mason, ha replicato con le seguenti parole: “Parlando con schiettezza, le decisioni prese dai parlamenti non avvantaggiano e non potranno mai avvantaggiare l’Armenia. Auspico che questi adulteratori della verità storica che, agitando le mani scompigliano le carte, si rendano conto al più presto del danno che hanno arrecato alle odierne generazioni, all’attuale processo di pace, al dialogo nonché ai vari tentativi di riconciliazione”.
Una serie di attacchi frontali, insomma, dietro cui si celano sicuramente le pressioni di potenti lobby armeno-americane come l’Armenian National Committee of America, che sebbene lascino intravedere qualche tenue spiraglio d’apertura, rendono altresì il dialogo difficile se non addirittura impossibile.
Ermanno Visintainer