La situazione internazionale si sta aggravando. Nubi nere cariche di elettricità e di pioggia avevano cominciato ad addensarsi subito dopo il discorso di Obama dall’Università de Il Cairo il 4 giugno 2009. Era un’apertura di credito oggettiva a quel mondo islamico che farà le Primavere Arabe, l’attacco di Al Azhar e del New York Times al Benedetto XVI di Ratisbona ne era stato un’anticipazione, e chiuderà la fase storica del socialismo nazionale arabo che nel 1956 aveva sloggiato da Suez con l’aiuto determinante delle due superpotenze i vecchi colonialisti francesi ed inglesi. Caddero così la Jamāhīr di Gheddafi, Ben Alì e Mubarak. L’Algeria a cui ci affidiamo precipitosamente per sostituire il gas naturale russo che per ora continua fortunatamente a fluire, è sopravvissuta all’assalto del terrorismo fondamentalista pagando un prezzo civile molto alto, mentre la resistenza della Siria di Assad ha consentito a Putin di rompere l’accerchiamento dell’ellissi energetica di Brzezinski, forse il maggiore teorico della strategia imperiale USA da Carter, di mettere solide radici in Medioriente sognate dai tempi di Mossadeq e di sbarcare in Cirenaica con Erdogan in Tripolitania: ad portas dello stretto di Sicilia. Al resto, la questione palestinese ed il puzzle libanese che stenta a riprendersi dalla morte di Hariri del 2005, l’instabilità endemica dell’Iraq dopo Saddam e l’accordo sul nucleare iraniano, i migranti che bucano il Fezzan non fanno al momento share ma il loro dramma va in scena quotidianamente, sembriamo assuefatti oppure abbiamo cambiato canale come nel finale del Truman Show.
Non è un quadro mediterraneo rassicurante per noi che ne siamo l’asse mediano e che da esso storicamente dipendiamo per le forniture energetiche ed agroalimentari.
È del resto dall’implosione jugoslava, un anno prima del regime change italiano di Mani Pulite, che nel dicembre 1991 l’assoluto germanico di Kohl elude le procedure concordate in sede comunitaria europea e, fonte inoppugnabile del 20 dicembre del Corsera, riconosce la Slovenia e la Croazia, seguito qualche mese più tardi dal Vaticano. Evapora il progetto di una transizione democratico-riformista e gradualista dell’ex blocco sovietico. Era già tardi per ricontrattare Maastricht.
Gorbačëv e l’Unione Sovietica con lui, unica fra le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, persero la guerra a posteriori, scrive Hans Modrow, l’ultimo Presidente del Consiglio della DDR prima delle elezioni del marzo 1990, nel suo illuminante Die Perestroika. We ich sie sehe, Berlin 1998 (La Perestrojka e la fine della DDR, l’edizione italiana è del 2019).
Il Diluvio di missili sulle città di Milosevic, titolo di apertura sempre del Corrierone nella primavera del 1999, tante vittime, anche donne e bambini, recitava l’occhiello, sancisce definitivamente l’espansione della NATO oltre la cortina di ferro e la dissolvenza dei patti relativi allo statu quo del vecchio limes della guerra fredda, come quando si rompeva la pellicola al cinema della nostra gioventù.
Per inciso il congresso socialista dell’Ansaldo nel 1989 fu tutto giuocato su questa scommessa sulla nuova Europa, una parata di respiro strategico euro-asiatico da Sacharov a Shimon Peres, a conferma che Craxi guardava assai più lontano del camper del CAF, Craxi-Andreotti-Forlani, l’ultimo accordo di maggioranza per dare stabilità alla 1ª Repubblica, che pure vinse le elezioni politiche dell’aprile 1992. Sappiamo che questa vittoria non servirà ad impedire la crisi di sistema accelerata dalla fine di Falcone e Borsellino e dall’elezione di Scalfaro al Quirinale.
Non può dunque che farci piacere sotto il profilo squisitamente analitico che Bill Clinton rivendichi sul magazine The Atlantic che we made the right decision expanding NATO, chiosando che my policy was to work for the best, while expanding NATO to prepare for the worst. In sostanza dice il Presidente americano abbiamo voluto con l’espansione dell’Alleanza Atlantica prevenire non un improbabile ritorno del comunismo, ma l’ultranazionalismo imperialistico insito nel dna di Pietro il Grande e di Caterina la Grande.
Un’uscita pubblica che mette fine alle inutili diatribe su chi ha tirato la prima pietra e riporta le vicende ucraine alla dimensione vera globale del vecchio scontro storico, narrato da Hobbes a Carl Schmitt, dai grandi interpreti della filosofia che la scuola, oggi quasi senza geografia e storia, fatica a renderceli vivi e reali, tra la talassocrazia della sfera anglosassone ed il Behemoth terrestre russo-asiatico. Mentre la Cina si spende il suo jolly tra l’Africa ed il Quad, il Quadrilateral Security Dialogue, che a sua volta rappresenta per il premier indiano Modi un bel carico da novanta per la partita nel mondo multipolare generato dalla globalizzazione ed uscito allo scoperto nei due voti all’ONU sulla Russia. E in Pakistan Imre Khan fa le spese del primo regime change post 24 febbraio.
È il bello della Storia sempre diversa e sempre uguale.
La Redazione
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