Il Sud America cerca un lìder maximo
Bandiere a mezz’asta a Buenos Aires e in gran parte dell’America Latina per la scomparsa di Hugo Chavez, il presidente del Venezuela che per mesi ha combattuto contro il cancro. E forse proprio l’omaggio degli altri Paesi latino-americani (non soltanto del subcontinente, ma anche del Centroamerica) sarebbe stato particolarmente gradito a Chavez che sognava di essere un novello Simon Bolivar, in grado di far collaborare Paesi che, al contrario, si sono troppo spesso combattuti.
Il presidente venezuelano è stato, indubbiamente, un personaggio controverso. Odiato dagli Stati Uniti, ma anche da re spagnolo Juan Carlos (protagonista di un memorabile battibecco con Chavez), amato dai diseredati del suo Paese e dai popoli e leader latinoamericani. Dall’Argentina all’Ecuador, da Cuba alla Bolivia. Ma Chavez era stato protagonista anche sulla scena extra americana, con i suoi accordi che spaziavano dall’Iran alla Cina.
Anche per questo si era ritrovato contro l’informazione occidentale, pronta a bollarlo come populista, terrorista, incompetente. Un Occidente scottato dalle nazionalizzazioni nel settore delle telecomunicazioni e del petrolio. I media accusavano Chavez di aver ridotto le capacità tecnologiche dell’industria estrattiva, eliminando gli investitori stranieri. E il presidente ribatteva che era inutile una grande capacità quando i proventi finivano eslusivamente all’estero. Lui preferiva che i ricavi finissero al popolo venezuelano. E aveva usato il petrolio anche come forma di scambio per ottenere, per la cura dei venezuelani, i bravissimi medici cubani. Petrolio in cambio di sanità.
Ma per capire davvero Chavez occorre partire dal rapporto di odio profondo verso gli yanqui (in pratica gli statunitensi, ma non solo) che caratterizza quasi tutti i popoli latino-americani. Gli Usa, con la dottrina Monroe, avevano arbitrariamente considerato Centro e Sud America come il loro giardino di casa. Un giardino da sfruttare a piacimento, con popolazioni poverissime, con un ambiente devastato, con la possibilità di intervenire per cambiare i governi. Chavez, come Peron, Kirchner, Correa, Morales, Lula, aveva dimostrato che la dottrina Monroe poteva essere messa in soffitta. Ridando orgoglio, dignità, speranza a tutto il SudAmerica.
Con la sua morte, però, il complicato incastro di alleanze rischia di essere messo in discussione. Gli Stati Uniti vedono uno spiraglio per rientrare in gioco nell’area e le condoglianze subito espresse sono la dimostrazione delle mai sopite velleità. Anche per evitare che sia la Russia di Putin a conquistare spazi in Sud America. Ma Caracas rappresenta anche un sostegno non solo politico per Bolivia ed Ecuador, così come per l’Argentina sotto attacco del Fondo monetario internazionale. Ovviamente, in questa fase, si sprecheranno le dichiarazioni di continuità. Anzi, Nicolas Maduro, il delfino designato da Chavez, ha tuonato contro gli Usa, accusandoli di aver avvelenato il presidente provocandogli il cancro. Un’accusa che si era levata anche da altri Paesi anti yanqui, con leader ammalati sempre di cancro. La stessa Kirchner sta lottando contro la malattia. Ma sono accuse che servono a mobilitare la base, a tranquillizzarla sulla continuità.
Il problema vero, che vale per il Venezuela come per gli altri Paesi latino-americani, è il rapporto particolare che si crea tra il popolo ed il proprio lider maximo. Il Caudillo, in realtà, è un personaggio che ha molto più di italiano che di spagnolo. Un rapporto anche fisico, totalizzante. Ed è difficile trasmettere questo carisma, questo fascino, questo coinvolgimento, solo per designazione. In Argentina sono trascorsi molti anni, dopo la morte di Peron, prima che i peronisti trovassero un erede in grado di coinvolgere le folle. Sino ad arrivare a Nestor Kirchner e poi a sua moglie Cristina. Ma la successione rappresenta un grande problema. Maduro non sembra avere il carisma sufficiente. Il che non significa che non possa governare, tenendo insieme le varie anime del chavezismo. Ma Mosca e Washington cercheranno di approfittare dell’incertezza. Come pure Pechino.