I musei nel mondo sono più di 80mila ed oltre 35mila sono collocati in Italia. Ma la Cina, che ne ha inaugurati 1.400 negli ultimi 10 anni, ne aprirà altri 5mila entro il 2020. Per favorire l’incremento del turismo, indubbiamente. E, dunque, anche per ragioni di business. Ma non c’è solo questo aspetto. Perché Pechino è impegnata da tempo in immensi investimenti culturali in tutto il mondo. Un’arma fondamentale nelle strategie cinesi legate al soft power. E la presenza a Torino di una delegazione cinese, in occasione della prima Borsa internazionale delle mostre, è la dimostrazione di come il grande Paese asiatico si stia muovendo sulla scena mondiale.
Non certo da solo. A Torino c’erano anche i delegati del Qatar, altro Paese alle prese con una penetrazione nelle coscienze internazionali attraverso ogni strumento. Così come fanno, ormai, moltissimi governi che direttamente, o attraverso imprese pubbliche e private, rafforzano la propria immagine con strumenti non convenzionali. Si pensi soltanto alle squadre di calcio europee passate sotto il controllo di ricchi esponenti delle classe dirigenti degli Emirati. Si pensi alla squadra di ciclismo dell’Astana che ha vinto l’ultimo Giro d’Italia.
Ma vale per la musica, per l’arte, per l’architettura. Il flop del Festival di Sanremo non è solo un problema per l’inconsistente discografia nazionale, ma diventa un ostacolo per le esportazioni italiane dei tipici prodotti del made in Italy. Il successo dei nostri prodotti, dalle auto alla moda, dai vini ai formaggi, è legato anche alla percezione globale dell’Italia che hanno i consumatori stranieri. Essere la “patria del belcanto” crea la condizione ideale per vendere il Prosciutto di Parma.
Esistono meccanismi mentali che spingono i consumatori (perlomeno quelli con disponibilità economica e livello culturale medio-alto) a preferire un prodotto rispetto ad un altro sulla base delle emozioni che provoca il legame tra il prodotto e la sua origine.
Ed allora l’India rafforza la sua Bollywood, ossia l’industria cinematografica che, su esempio ma anche in concorrenza con quella hollywoodiana, veicola uno stile di vita indiano invece che statunitense. Così come veicola, attraverso il cinema, anche una lingua che – per ragioni demografiche – è molto più conosciuta e parlata di quelle latine.
Soft power, dunque, come mezzo per il successo economico ma anche per il successo politico. La vicenda dell’Ucraina dimostra chiaramente quanto la Russia stia pagando, in termini di immagine internazionale, proprio a causa della mancanza di una strategia di soft power. Una strategia che, per quanto condotta rozzamente, funzionava molto meglio all’epoca della Guerra Fredda quando ogni Paese europeo poteva contare su una miriade di associazioni di “amicizia italo-sovietica”. Con cineforum, incontri letterari, iniziative artistiche che servivano a trasmettere il messaggio di Mosca. Ora, al contrario, si è pensato che le folli spese in Occidente di qualche oligarca o le sfilate di modelle russe nel Quadrilatero milanese dellamoda fossero forme sostitutive di un soft power che richiede molta più cultura e lungimiranza.
Non è neppure una questione di risorse. Perché l’Azerbaijan può tranquillamente sponsorizzare squadre di calcio come il Barcellona e collaborare per la realizzazione di libri in Italia per far conoscere l’importanza delle chiese albane del Paese.
Quanto all’Italia, una ricerca della Fondazione di Venezia illustra perfettamente la situazione, partendo dai musei. «L’Italia importa a caro prezzo modeste produzioni internazionali ed esporta, spesso gartuitamente, opere di pregio utilizzate da terzi». Cioé nessuna strategia di soft power e neppure un briciolo di guadagno economico.
di Alessandro Grandi