Il fronte moderato del presidente Hassan Rohani e dell’ex capo di stato Hashemi Rafsanjani ha conquistato la maggioranza relativa alle elezioni iraniane della scorsa settimana. Nella decima legislatura del Majlis, i riformisti- moderati avranno 92 seggi che, sommati ai 44 ottenuti dagli indipendenti, dovrebbero garantire la maggioranza con 136 seggi complessivi. Il blocco dei conservatori resta comunque il primo partito con 115 seggi. Tuttavia, come osserva Daniele Lazzeri, direttore del think tank di studi geopolitici “Il Nodo di Gordio”, in realtà la vittoria del cosiddetto “mondo riformista” iraniano è concentrata prevalentemente nelle città principali. «Come spesso accade negli Stati mediorientali, le periferie e le aree rurali confermano una tradizione più vicina all’ambiente conservatore. Ciononostante, è indiscutibile che la scommessa di Rohani sul cosiddetto “Iranian Deal” (l’accordo sul nucleare, ndr) abbia influito positivamente sul risultato elettorale. L’abolizione dell’embargo, dopo lustri di isolamento internazionale, consente all’Iran di riaffacciarsi sul palcoscenico mondiale». Bisognerà aspettare il ballottaggio di fine aprile per assegnare alcune decine di seggi vacanti, suddivisi tra 33 conservatori, 33 riformisti e 44 indipendenti. «Spalleggiata dallo storico alleato russo, la Repubblica degli ayatollah – prosegue Daniele Lazzeri – vuole riaffermarsi come potenza regionale in tutto il Medio Oriente. Gli sforzi profusi in questi mesi dall’esercito iraniano contro i jihadisti dello Stato Islamico si inseriscono in un più vasto scontro che va sotto il nome di “Fitna”, l’atavico conflitto tra il mondo sciita e quello sunnita. In questo “Grande Gioco” mediorientale, il generale iraniano Qassem Soleimani ha svolto un ruolo di primo piano, coordinando l’esercito iraniano con le milizie libanesi di Hezbollah e le altre forze sciite presenti nella regione. La rinnovata distensione con gli Stati Uniti dopo la chiusura degli accordi sul nucleare, tuttavia, rischia di scontrarsi con i timori dei tradizionali alleati di Washington nell’area: dall’Arabia Saudita al Qatar. Senza considerare l’ennesima condanna da parte di Israele che, per bocca del Primo ministro Bibi Netanyahu, vede ancora l’Iran come la principale minaccia alla sua stessa sopravvivenza». Le elezioni rappresentano in ogni caso un successo per la “normalizzazione” iraniana: trentaquattro milioni i votanti, il 62% dei 55 milioni di aventi diritto (a Teheran la percentuale dei votanti è stata del 50% più alta, con il 62% nelle province), e le 15 donne che entrano in Parlamento stabiliscono un primato assoluto dalla rivoluzione khomeinista del 1979. Rafsanjani e Rohani, entrambi dello schieramento riformista-moderato, guidano inoltre la lista dei 16 eletti all’Assemblea degli Esperti, che nei prossimi otto anni potrebbe essere chiamata a eleggere la nuova Guida Suprema. «Diversamente dalla prassi occidentale, l’ecosistema politico iraniano si regge su visioni di lungo periodo. Non è affatto detto, quindi, che la vittoria del fronte riformista in questo frangente influenzi automaticamente la nomina della nuova Guida Suprema. Paradossalmente, proprio per mantenere un equilibrio interno, la spinta verso l’ala riformista del Paese potrebbe rinsaldare tutte quelle forze custodi della Tradizione. Stiamo parlando di uno Stato dove i Pasdaran, braccio militare di Teheran, insieme all’attuale Guida Suprema Ali Khamenei detengono – attraverso fondazioni e società finanziarie – circa il 70% dell’economia iraniana. Il fronte conservatore è dunque ancora ben saldo al comando».
Luigi Marcadella