Appare, a tutta prima, evidente come l’intervento militare francese in Siria e quello, immediatamente successivo, della Russia siano strettamente collegati, ed anzi che il secondo sia, almeno in parte, conseguenza del primo. Tuttavia tra la discesa in campo delle forze di Parigi e di quelle di Mosca passa una netta differenza. Infatti, mentre la decisione di Hollande – che sembra aver preso in contropiede gli alleati europei, dimostrando una volta di più l’inesistenza di una qualsivoglia politica estera e/o di difesa comunitaria – appare ispirata per lo più da ragioni di politica interna – la disperata ricerca di recuperare consenso popolare da parte di una presidenza in caduta libera nei sondaggi – e dalle tradizionali e mal riposte ambizioni di grandeur, l’intervento militare voluto da Putin risponde ad una ben precisa e lucida strategia.
Lo Zar infatti ha preparato la strada al ricorso alla forza delle armi con un paziente e minuzioso lavoro di tessitura diplomatica. Tessitura che ha avuto i suoi nodi fondamentali nel riavvicinamento, nei mesi scorsi, con l’Egitto di Al Sisi, nell’essersi molto speso – dietro le quinte – per favorire l’accordo di Ginevra sul nucleare fra Teheran e Washington, e infine, nelle ultime settimane, nei faccia a faccia con il Presidente turco Erdogan e con il capo del governo israeliano Bibi Netanyahu. Così Putin ha potuto recarsi all’incontro con Barack Obama – il primo dall’inizio dell’irrisolta crisi ucraina – con in mano delle buone carte da giocare; anzi, avendo sicuramente carte tali da mettere in netta difficoltà il suo interlocutore. Infatti Obama si è ritrovato a ripetere in modo quasi meccanico e poco convincente l’ormai usuale litania: lo Stato Islamico va sconfitto, ma Assad deve andarsene, vanno aiutate le “forze democratiche” siriane ed altre banalità del genere… senza però dire, ancora una volta, come pensa di poter conseguire tali obiettivi, che, ormai, appaiono a tutti astratti e fantomatici.
All’opposto il leader del Cremlino si è presentato al vertice di New York con una precisa strategia su come affrontare la questione siriana e, soprattutto, avendo ben chiaro in mente che cosa voleva portare a casa da quel colloquio con il suo omologo statunitense. Che era, poi, un’unica cosa: la pubblica ammissione da parte di Obama della necessità di un’ampia convergenza, comprendente anche la Russia, per poter affrontare e debellare la minaccia delle milizie jihadiste dell’Is. E questo, appunto, Putin ha incassato, costringendo, di fatto, Obama a riconoscere che senza il contributo della Russia il conflitto in Siria non può avere soluzione. Poi, lo Zar, senza perdere ulteriore tempo nei vani esercizi retorici del Palazzo di Vetro, è tornato velocemente a Mosca, ha riunito il Consiglio di Sicurezza russo ed ha attaccato, spiazzando una volta di più l’eternamente indeciso Obama e suscitando la furia dello scialbo Hollande che si è visto portar via il posto (agognato) di primo attore nel dramma.
Con ogni probabilità, l’intervento russo in Siria mira ad alcuni, precisi, obiettivi. In primo luogo il controllo della costa siriana con i suoi porti, vitali per garantire la presenza della flotta di Mosca nel Mediterraneo. Territori la cui popolazione è, per lo più, di confessione alawita, quindi legata ad Assad, che Putin, palesemente, non è disposto a lasciar defenestrare, anche se non si dovrebbe escludere la possibilità che, nel medio termine, il Cremlino stesso finisca per giubilare il dittatore favorendo l’ascesa di una nuova leadership più presentabile a livello internazionale. Un passaggio politico che necessita dell’accordo d’intenti con Teheran, e che, per altro, incontrerebbe il favore tanto di Israele, quanto della Turchia.
Poi, l’obiettivo russo è sicuramente anche il mantenimento del controllo di Damasco, evitando che cada nelle mani tanto del Califfato, quanto dei ribelli cosiddetti “democratici”, in realtà ormai egemonizzati dal Fronte Al Nusra, legato alla rete di Al Qaeda. Ed infatti i raid aerei russi stanno colpendo contemporaneamente entrambi gli schieramenti pur in conflitto fra loro. Scelta che sta suscitando le, vane, furie di Washington e Parigi, che su Al Nusra hanno puntato anche per influenza dei sauditi e del Qatar. Una scelta, quella di colpire anche il fronte dei ribelli non schierati con l’Is che trova, però, sicuramente consonanza con gli interessi dell’Egitto, dove Al Sisi sta duramente reprimendo tutti i movimenti di ispirazione islamista radicale, indipendentemente dalla loro collocazione nella galassia jihadista.
Quanto ad Erdogan è assai probabile che Putin gli abbia promesso di non ingerire nella questione curda; anzi di ostacolare la nascita di un Kurdistan siriano indipendente, come invece sembra essere nei disegni di Washington. Ottenendo così di alienare ulteriormente i rapporti fra la Turchia e il suo tradizionale alleato americano.
Infine a Netanyahu il leader russo potrebbe aver garantito di spendersi per rendere meno minacciosa – e meno armata – la presenza di Hezbollah in Libano, sfruttando anche i buoni rapporti con l’Iran di Rohani. E ad Israele, comunque, una Siria controllata, almeno nelle sue regioni strategiche, da Mosca, fornisce sicuramente maggiori garanzie di sicurezza di un paese in mano ai qaedisti di Al Nusra come sembrerebbero volere i francesi e, in modo più confuso, gli statunitensi.
Andrea Marcigliano Senior fellow
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