L’Afghanistan come nuovo teatro di rivalità fra le organizzazioni jihadiste
Nel corso degli ultimi anni il ritorno della politica di potenza della Russia e lo scoppio delle rivolte nel mondo arabo, che sembravano aver aperto il vaso di pandora della democrazia in Medioriente, avevano diffuso una smisurata illusione per la sicurezza planetaria: il tramonto della minaccia jihadista. La mancanza, da più parti, di una strategia chiara e coerente nella gestione della crisi siriana e la sorprendente espansione dello Stato islamico hanno però smascherato questa illusione, riportando inesorabilmente la galassia jihadista nelle cronache della storia contemporanea. Nel 2014 l’ISIS ha iniziato a sviluppare relazioni con potenziali affiliati al di fuori delle frontiere di Siria e Iraq: lo scorso ottobre il movimento libico Ansar al-Shari’a ha giurato fedeltà allo Stato islamico e un mese dopo è arrivato il giuramento di Ansar al-Bayt Maqdis (che ha un notevole peso nel Sinai), mentre a marzo il sedicente califfo al-Baghdadi ha accolto la richiesta di affiliazione di Ustaz Mohammed Yusuf, guida spirituale e fondatore di Boko Haram.
La perdita di influenza in alcune aree mediorientali da parte di al-Qaeda, impegnata ad arricchire il proprio fronte soprattutto in Yemen, ha indotto lo Stato islamico a proiettare le proprie mire espansionistiche verso due storiche roccaforti qaediste, vale a dire Pakistan e Afghanistan. Come si legge da un recente report del Pentagono, lo Stato islamico continua a cercare gli espedienti per espandere la propria presenza in Afghanistan, ponendo le basi per un’implosione di scontri fra le fazioni jihadiste in contrapposizione. Ma sebbene nei mesi più recenti il califfato sia riuscito a conquistare il sostegno di alcune cellule jihadiste in Pakistan e in Afghanistan, con l’obiettivo di indebolire al-Qaeda e i più potenti gruppi di talebani, questi ultimi sembrano non gradire la pervasività con cui gli estremisti del Daesh tentano di imporsi a vessillo assoluto del jihad.
È del 16 giugno un messaggio con cui i vertici dell’organizzazione talebana Islamic Emirate of Afghanistan si rivolgono al leader dello Stato islamico Abu Bakr al-Baghdadi in questi termini: “L’Emirato islamico dell’Afghanistan da una posizione di fratellanza religiosa vuole il vostro bene e non ha alcuna intenzione di interferire nei vostri affari. Reciprocamente, speriamo e ci aspettiamo lo stesso da voi”. L’avvertimento, non troppo velato, è contenuto in una lettera pubblicata in varie lingue sul sito dell’organizzazione e diffusa ad alcuni giornalisti. Secondo il Washington Post questa lettera riflette la crescente preoccupazione dei talebani, frammentati da un punto di vista identitario e strategico, che il Califfato possa riempire il vuoto lasciato in alcune aree dell’Afghanistan, dove il controllo delle forze militari locali non ha fatto presa sul territorio.
È il caso della provincia di Helmand, abbandonata nel maggio 2014 dai Marines dopo una decisione presa dai vertici militari statunitensi, che ritenevano l’area “largamente pacificata”. Ma da allora, Musa Qala e altri tre distretti della provincia sono precipitati nella violenza e i talebani hanno rapidamente rafforzato il loro controllo nella parte settentrionale di Helmand, in particolare nel quartiere Baghran. Nei giorni scorsi i ribelli hanno ucciso almeno 11 membri delle forze dell’ordine afghane durante un attacco ad alcuni edifici governativi situati in un distretto a sud di Helmand. Inoltre da quando è stata annunciata la nuova offensiva, i talebani hanno minacciato di assalire Kunduz, un’importante città vicina al confine col Tagikistan[1]. Il 21 giugno a Kunduz si sono verificati scontri fra talebani e forze di sicurezza afghane, che però hanno lanciato una controffensiva ai ribelli.
In ogni caso la nuova stagione di combattimento dei talebani, indirizzata alle forze militari straniere e ai funzionari del governo afghano, sembra stia vivendo una fase di successi. I ribelli stanno approfittando della fase di transizione verso missioni di non combattimento che i reparti militari di Kabul stanno attraversando. Va aggiunto che in alcune regioni, i talebani godono del sostegno di altre forze a essi collegati, come il Movimento Islamico dell’Uzbekistan e il Movimento di Indipendenza del Turkestan Orientale[2]. Ma stando a quanto dichiarato di alcuni ufficiali della Casa Bianca, il pericolo di un rafforzamento dei talebani proviene da uno degli attori più influenti nella regione: l’Iran.
Nel corso di incontri diplomatici con ufficiali occidentali e afghani, Teheran ha ripetutamente negato di aver fornito qualsiasi tipo di finanziamento o aiuto militare ai talebani. Storicamente, le relazioni fra la Repubblica islamica sciita e i talebani sono state piuttosto controverse: nel 1998 l’Iran sfiorò l’inizio di un conflitto armato contro il regime talebano, dopo che 10 suoi diplomatici furono uccisi nel consolato iraniano di Mazar-e Sharif, una città nel nord dell’Afghanistan. Inoltre nel 2001 Teheran evitò di schierarsi contro il rovesciamento del regime talebano e instaurò relazioni pacifiche con il governo filo-occidentale insediatosi a Kabul.
Ma l’Iran non ha mai gradito la presenza militare statunitense e, come riporta un documento del Pentagono pubblicato lo scorso ottobre, i Corpi delle Guardie Rivoluzionarie fornirebbero armamenti ai talebani almeno dal 2007. Nel 2014 anche ufficiali della sicurezza afghana hanno affermato che l’Iran stesse addestrando combattenti talebani all’interno dei propri confini. L’addestramento di Teheran agli uomini di Abdullah, il comandante dei talebani, avverrebbe almeno in quattro campi di addestramento, nelle città di Teheran, Mashhad, Zahedan e nella provincia di Kerman[3].
Nonostante la diversa connotazione religiosa, componente essenziale nelle dispute geopolitiche mediorientali, l’appoggio dell’Iran andrebbe inquadrato nella sua lotta allo Stato islamico, di cui Teheran è il principale avversario. Il timore della Repubblica islamica è che il Califfato possa costituire un nuovo fronte al confine orientale iraniano, frenando l’espansione dell’influenza di Teheran nella regione. L’appoggio ai talebani è inoltre un espediente per contrastare il soft power americano in Afghanistan. Lo sviluppo di questi legami rappresenta una nuova complicazione nei piani di Obama, sia per la normalizzazione dei rapporti diplomatici con l’Iran, con cui Washington continua a portare avanti il dialogo sul nucleare e sull’interruzione delle sanzioni economiche a Teheran, sia per il Medio Oriente e il futuro dell’Afghanistan, dove gli Stati Uniti lavorano da anni per arginare il ruolo dei talebani e il loro supporto ad al-Qaeda.
Ciò che emerge con chiarezza è che, nonostante il consistente numero di affiliazioni già ottenute, nel panorama jihadista esistono ancora movimenti fondamentalisti di matrice sunnita che tendono a mantenere le distanze dallo Stato islamico, frenando la sua espansione sul campo e rivelandone i limiti ideologici e propagandistici.
Andrea Ursi
Corrispondente da Bruxelles
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[1] Taliban Strike Crucial District in Afghanistan, The New York Times, June 19, 2015.
[2] Afghan officials: 11 police, army dead in Taliban attack, The Washington Post, June 18, 2015.
[3] Iran Backs Taliban With Cash and Arms, The Wall Street Journal, June 11, 2015.