Quello di Richard Perle è forse un nome che rimbalza di rado sui grandi media, ma, al tempo stesso, ben noto, anzi “famoso” fra coloro che si occupano di politica internazionale. Attualmente membro di alcuni dei think tank maggiormente influenti sulla politica di Washington – dall’Hudson Institute al Washington Institute for the Near East Policy – ha, in un passato ancora recente, rivestito incarichi di fondamentale importanza durante l’Amministrazione Reagan – come Assistente del Segretario alla Difesa – e poi ancora con George W. Bush in qualità di Chairman of Board.
Viene considerato non solo uno dei massimi esponenti del neo conservatorismo statunitense, ma anche, e forse soprattutto, uno degli uomini che hanno maggiormente contribuito a disegnare la politica estera americana sotto le Amministrazioni degli ultimi tre Presidenti Repubblicani. Per il suo ruolo, e per il carattere restio ad ogni esibizione mediatica, la stampa statunitense ha preso l’abitudine di soprannominarlo “The Prince of Darkness”. Il Nodo di Gordio è, pertanto, onorato di presentare una, interessante quanto rara, intervista a 360 gradi sulla politica internazionale e sulle scelte e gli errori dell’America di Obama, rilasciata in esclusiva dal “Principe delle Tenebre”.
Cominciamo con l’Iraq. Cosa pensa del ritiro delle truppe USA voluto da Obama all’inizio del suo primo mandato? L’impressione è che si sia trasformato in un pericoloso boomerang, aprendo la strada all’IS…
La decisione da parte del Presidente Obama di ritirare le truppe statunitensi dall’Iraq, così come la sua incapacità di riconsiderare tale decisione allorché la situazione si era successivamente deteriorata, è stato un grave errore. Per essere onesti, il Presidente Bush aveva negoziato il ritiro delle truppe americane, una decisione che avrebbe quasi certamente modificato quando le sue conseguenze divennero esaurientemente evidenti. Ci sono pochi dubbi sul fatto che l’assenza delle truppe americane in Iraq abbia creato un vuoto che l’ISIS era ansioso di sfruttare a proprio vantaggio e che continua a sfruttare anche adesso.
La gestione del conflitto in Siria ha, sino ad ora, visto Washington molto incerta, e lasciato spazio all’iniziativa di Mosca e Teheran. Che implicazioni potrebbe avere questo nei futuri assetti del Medio Oriente?
Il posto del Presidente Obama nella storia sarà visibilmente definito dalla sua politica in Siria. Invece di adottare una politica atta ad affrontare una rivolta anti-Assad, all’inizio, quando era possibile esercitare un’influenza sulla sua conformazione e il suo carattere, il Presidente Obama ha relegato gli Stati Uniti al margine e, così facendo, ha permesso agli iraniani, ai sauditi, ai russi, ai turchi e agli altri di influire su un allineamento sempre più micidiale di forze. Assad ha ricevuto il sostegno di Teheran e Mosca, mentre gli estremisti islamici erano armati e sostenuti dai sauditi, dai turchi e dagli altri stati del Golfo. Il risultato dell’immobilismo di Obama è stato quello di abbandonare il campo alle forze anti-occidentali su entrambi i lati, lasciando gli Stati Uniti ed i suoi alleati in una posizione inevitabilmente perdente. La lezione in cui possiamo solo sperare e che sarà assimilata dal prossimo Presidente americano è quella secondo cui, quando gli Stati Uniti non riescono ad agire, l’Occidente è posto alla mercé di forze ostili e che non ci si possa aspettare un risultato positivo.
Gli accordi di Ginevra con l’Iran vengono considerati da Obama come un grande successo, e come un passaggio fondamentale per portare la pace in tutto il Medio Oriente. È d’accordo con questa visione o pensa che fidarsi troppo degli iraniani possa essere un errore?
L’accordo che è stato raggiunto con l’Iran, sotto grande pressione da parte degli Stati Uniti, si rivelerà dannoso sia nel breve che nel lungo termine. Nel breve periodo ha dato al regime di Teheran un’ancora di salvezza nel momento stesso in cui era alla deriva e vicino all’affondamento. L’accordo ha rafforzato il prestigio di un regime irrimediabilmente ostile all’Occidente in generale, e agli Stati Uniti, Israele e ai governi del Golfo sunniti in particolare. L’accordo ha glissato su seri problemi tecnici e di verifica, compiacendo le forze armate, i missili balistici di Teheran, nonché avallando il sostegno a continuare con il terrorismo e la destabilizzazione regionale. Nel lungo periodo, l’accordo, per quanto scrupolosamente attuato, il che è improbabile, inevitabilmente accelererà la proliferazione delle armi nucleari in una zona pericolosamente instabile del mondo. Non credo nemmeno che Obama ritenga che quest’accordo fermerà lo sviluppo di armi nucleari iraniane. Piuttosto, egli si aspetta, a torto, che l’accordo condurrà ad un cambiamento fondamentale nella posizione politica e militare iraniana, spalancando le porte ad un Iran pacifico e bendisposto. Tra i tanti, la mancata comprensione da parte di Obama del regime di Teheran costituisce un errore di proporzioni storiche.
Come vede l’insediamento in Libia del governo di Sarraj: potrebbe davvero essere la chiave per porre fine al caos ed alla guerra civile?
Penso che, purtroppo, ci sia una lunga strada dalla fine al caos e della guerra civile in Libia. Non ci sono istituzioni solide cui ritornare perché non ce n’erano nemmeno sotto Gheddafi e da allora nessuna è stata realizzata. Perfino senza il supporto proveniente dall’esterno da tutte le direzioni, la prospettiva di un governo stabile a breve termine in Libia è trascurabile. Con il supporto di interessi particolari dall’esterno, che è destinato a crescere, le prospettive per la Libia sono desolanti.
Che cosa ci dobbiamo aspettare dal futuro inquilino della Casa Bianca? Come potrebbe cambiare la politica estera di Washington con la Clinton o con Trump?
In un normale anno elettorale, in America, avremmo un’idea ormai precisa delle prospettive di politica estera da parte dei candidati. Ma questo non è un anno normale. Se Hillary Clinton diverrà presidente, la politica estera sarà costituita in gran parte dalla tradizionali istituzioni burocratiche di politica estera e di sicurezza: il Dipartimento di Stato, il Dipartimento della Difesa, l’intelligence nonché la comunità dei diplomatici di carriera e in pensione che trasmettono il codice genetico dell’ininterrotta politica estera americana post Seconda Guerra mondiale: un ritorno alle politiche pre-Obama in contrasto con la sua leadership debole e disimpegnata. Ma se sarà eletto Donald Trump – e lui è il probabile candidato – nessuno può dire quali saranno le politiche che adotterà. Non credo che abbia mai dedicato alcun serio pensiero né alla politica estera né alla sicurezza e qualsiasi cosa dica nel corso di una campagna elettorale non deve essere preso in considerazione. Senza alcun antecedente da tutelare lui può – e potrà – dire tutto ciò che pensa, per arrivare alla Casa Bianca. Solo allora egli inizierà a considerare la politica estera e la sicurezza americana. La cavalcata si prospetta selvaggia.
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