Quanto e come cambieranno le relazioni transatlantiche con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca? Giorgio Dominese, direttore del Transition Studies and Research Network, un fitto curriculum accademico in università italiane ed internazionali, propone una cifra interpretativa della politica estera che ha in mente il controverso “tycoon” di Manhattan, che accarezza l’idea di essere l’uomo più potente e discusso del pianeta.
Il Vecchio Continente in parallelo all’elezione di Trump vive la fase più complessa della sua storia recente: da un lato in molti influenti ambienti continentali si parla della moneta unica come di un processo non più “irreversibile”, dall’altro la cancelliera Angela Merkel, assieme ad altri leader europei, apre all’ipotesi di un’Europa “a due velocità”, di fatto un’Unione più flessibile, con obblighi per i singoli Paesi membri più articolati. Da ultimo la candidata Marine Le Pen ha annunciato l’intenzione, in caso di vittoria alle prossime politiche francesi, di uscire dall’Unione e dalla Nato. «Questa ondata illiberale e populista forse si rivelerà presto un fattore salvifico delle democrazie dell’Occidente», spiega il professor Dominese.
Allontanandoci dal vortice delle news quotidiane, stando alle dichiarazioni pre-insediamento Trump e il suo staff vogliono “normalizzare” il rapporto con Mosca. Su quali dossier sarà possibile un dialogo diverso rispetto alla presidenza di Barack Obama?
«Finora nulla di ciò che ha affermato in campagna elettorale e nelle prime settimane da Presidente è “transitabile” nella politica estera statunitense: abbiamo commentato sino ad ora semplicemente una grande euforia derivante dallo scontro elettorale. Ha giocato su tutti i grandi temi tipici del populismo e ha fatto il “guitto”, come si direbbe in Italia, per prendere i voti. Non succederà nulla di stravolgente, almeno nel breve periodo. Sui rapporti con la Russia, la realpolitik segnala che in Ucraina si torna a combattere: l’Unione Europea ovviamente sta dalla parte dell’Ucraina e Trump non potrà che mantenere la linea strategica della precedente amministrazione, non ci sono altre opzioni realistiche. Del resto, il dossier dei rapporti dei collaboratori di Trump con la dirigenza e “intelligence” moscovita hanno già causato seri contraccolpi istituzionali, come la rimozione di Mike Flynn e altre sorprese ne riserverà il futuro. Da rimarcare che la classe diplomatica americana anche dopo l’insediamento di Trump ha continuato a sparare “a zero” sulla politica estera russa. Donald Trump è e rimarrà prigioniero delle sue dichiarazioni. Le “600” parole del vocabolario della campagna elettorale non consentono di governare la complessità di chi guida la prima potenza mondiale. Rilevanti sono le recenti considerazioni di influenti accademici in una serie di incontri nelle principali università degli States: Trump deve cominciare a governare, non vi sono spazi ulteriori per le battute affidate ai tweet».
Nei rapporti con l’Unione Europea cosa ci aspetta? Il presidente Trump sembra privilegiare – almeno nelle intenzioni esternate in campagna elettorale – i rapporti statuali bilaterali.
«L’Europa sta alla finestra perché vuole capire come ri-orientare le proprie strategie nell’ottica del contenimento della Russia. Stiamo ai fatti: l’Unione ha stoppato la nomina di Ted Malloch ad ambasciatore statunitense a Bruxelles, noto per le sue posizione critiche verso l’Europa. Nonostante la propaganda di molti leader anti-europei, l’Unione è in questa fase più compatta che mai e non ha alcun interesse alla nostalgia del paradigma dello Stato-nazione. Le grandi linee di sviluppo della politica mondiale non si fermano alla “propaganda”, basti pensare a ciò che ha affermato a Davos il leader cinese Xi Jinping: ha “difeso” la globalizzazione, il mondo è “One World”, è pura follia pensare ai vecchi fardelli ottocenteschi. Anche tenendo conto delle nuove teorie dello sviluppo, lo Stato nazionale senza la visione globale e sovranazionale non ha nessuna possibilità di “governance” competitive e determinanti. Rispetto alle posizioni di Trump: le élites mondiali non sono – per adesso – preoccupate dal “carico” delle sue dichiarazioni. Forse alcuni ambienti sono preoccupati per un eventuale indebolimento del pilastro transatlantico nella politica americana».
Con la Germania – che di fatto governa i macro processi del potere economico e finanziario europeo – che atteggiamento assumerà allora la Casa Bianca? “The Donald” ha messo nel “mirino” l’enorme surplus commerciale tedesco?
«La Germania è una potenza globale, con una struttura industriale e tecnologica in grado di competere a livello globale. Poniamo il caso che per ritorsione, verso politiche ostili di Trump, l’Unione Europea imponga un embargo alle merci statunitensi: gli Usa esportano in Europa circa il 20 per cento della loro produzione, senza contare gli investimenti diretti e il valore dell’interscambio militare-tecnologico che non rientra nella contabilità “ufficiale” – perché protetto da riservatezza – tra Washington e l’Europa. “America First” è un “auto-da-fé” in termini economici, commerciali, industriali e militari. Va detto che nessuna grande potenza mondiale parla al mondo con le modalità semplicistiche di Trump: a volte usa un linguaggio da ragazzo delle medie superiori. Il discorso di insediamento è stato di un livello molto modesto e solo ad “effetto populistico”, più che il discorso programmatico dell’uomo alla guida della prima potenza mondiale aveva in sapore di un collage di vecchi tweet».
La guerra commerciale che si preannuncia anche con il ritorno delle frontiere e dei dazi, può spingere la Germania a “rivedersi” anche come una potenza militare e non solo economica? Tendendo conto che la Nato – di cui parleremo poi – è in completa afasia.
«Non vedo perché la Germania debba avere “ansie” sulla forza commerciale del suo sistema industriale, anche nei confronti degli Stati Uniti. La Germania probabilmente ha il blocco industriale, nei settori a maggior valore aggiunto, più competitivo nel mondo. Molti prodotti tedeschi vengono valutati da imprenditori anche italiani con un valore qualitativo e tecnologico in molti settori di punta di oltre il 20 per cento rispetto ai concorrenti europei ed internazionali. Dal punto di vista militare la Germania mantiene invece con la Francia un protocollo di collaborazione militare rafforzata, con l’opzione di “sharing” nucleare, valido dagli anni di Kohl e Mitterand. Alleanza Atlantica a parte, l’intesa militare franco-tedesca è molto solida: pensiamo alla forza attuale e futura del gruppo Airbus, in chiave di ricerca e sviluppo e commerciale, oltre ovviamente alla collaborazione nelle altissime tecnologie industriali».
Che ne sarà dunque della Nato? Si profila un depotenziamento progressivo, visto che all’orizzonte prende forma un triangolo “anomalo” tra Trump, Putin e May.
«Direi che in alcuni ambienti americani in realtà si consideri l’Europa troppo forte dal punto di vista economico e industriale. Osserveremo nel prossimo futuro le oscillazioni del cambio euro-dollaro per capire le linee di questo scontro sotterraneo. Al di là della mediaticità delle bellicose dichiarazioni di Trump e delle muscolari dimostrazioni di Vladimir Putin che “sferraglia” in patria e in Siria con carri armati di antica memoria, le strategie della geopolitica mondiale viaggiano su altri binari. Questa è l’era dei droni e delle battaglie senza la centralità del “boots on the ground”, e per forza di cose la missione e le strutture della Nato verranno riviste. Ma ripeto sulle dichiarazioni di Trump in politica estera andiamoci piano: tutto l’”antico” che si trova nei discorsi di Trump, dall’economia alla difesa, cozza con la realtà. E così come ogni giorno in patria gli smantellano i decreti sotto il naso, in politica estera tutto deve “istituzionalizzarsi” dentro i grandi interessi mondiali americani».
Nel breve cosa è ipotizzabile?
«Gli Usa chiederanno un rafforzamento della Nato e vedremo grandi novità: prima di Trump nessuno in Europa avrebbe avanzato proposte “irriverenti” verso l’alleato americano, oggi invece l’Unione potrebbe chiedere maggiore autonomia e spazi geopolitici più ampi. La debolezza sta in Donald Trump quando afferma che gli sta “antipatica” la Merkel, ma anche su questo ritengo che il sistema politico americano nel suo complesso imbriglierà Trump. Nessuno pensi che gli Stati Uniti possano e vogliano tornare ad occuparsi solo del loro “orticello”. I primi a perderci sarebbero proprio gli americani».
Lei non sostiene questa tesi, ma l’Unione Europea secondo molti sembra sempre più fragile in considerazione delle spinte sovraniste dei singoli Stati e delle differenze economiche post-crisi tra i singoli membri. Anche l’euro, rispetto solo ad un paio d’ anni fa, non ha più il mantello della completa irreversibilità.
«Sorprende in linea generale che una parte anche dell’opinione pubblica europea possa considerare “novità positive” eventuali uscite dall’Unione per aggirare le crisi politiche e strutturali nazionali vecchie e datate. Le grandi incognite che incombono sull’Unione non sono imputabili alla forza dell’Ue, bensì alla debolezza di singoli sistemi politici che non avendo accettato maggiori “up-grading” nell’integrazione si trovano sempre più distanti dai Paesi guida. La Brexit di fatto ha consolidato i 27 paesi europei, perché ha esemplificato che fuori dall’Unione ci sono più incognite che benefici. Oltre alle dichiarazioni di facciata: anche i Paesi più riottosi, soprattutto ad Est, si stanno riallineando. Anche Orban ormai è molto attento e convergente. In Europa, dopo la stagione di “zero” investimenti, si sta ricominciando a comprare armamenti, a produrre armi e tecnologie militari nuove, anche nel settore cruciale dell’industria spaziale. Anzi proprio una collaborazione su settori cruciali potrebbe rinsaldare le relazioni transatlantiche. La verità è che l’Unione sta fronteggiando in modo fermo la Russia di Putin».
L’unica certezza nella politica europea in questa fase è stata proprio la forza industriale della Germania, unitamente alla solidità politica dell’asse franco-tedesco.
«La Germania per esempio ha un vantaggio strategico nel settore delle nuove energie alternative ed in quello delle turbine ad idrogeno, ed è quindi potenzialmente in grado di governare le prossime rivoluzioni mondiali nel trasporto aereo, nella produzione di energia in assenza di rischi e nelle applicazioni industriali e militari di queste nuovissime novità tecnologiche. Airbus nel giro di qualche anno sarà in grado di commercializzare aerei supersonici atmosferici e stratosferici nel contempo, già testati a livello di prototipi militari, con tratte Francoforte-Tokyo della durata di due ore e mezza o Francoforte-Sidney di tre ore e mezzo ed infine a New York in un’ora e poco più. Queste sono le strategie che cambiano realmente le agende economiche delle grandi potenze. È chiaro che sinergie militar-industriali di questo tenore interferiscono anche nel cambio di marcia nell’integrazione della politica europea di sicurezza e difesa».
La risoluzione della questione siriana, e i collegati effetti geopolitici locali, è di fatto lo snodo di tutte le future mosse delle superpotenze nel tavolo mediorientale. Ci dà una chiave di lettura per leggere la strategia di Trump in Medioriente?
«Non vedo per ora una strategia diversa da quelle precedenti. Basti pensare ai rapporti con Israele, sinora solo annunci: dalle ipotesi sull’ambasciata a Gerusalemme agli insediamenti in Cisgiordania. Certo, nulla è come prima dopo la guerra civile e gli orrendi crimini del regime di Assad e del Califfato Islamico. Proseguiranno le strategie che erano prima tenute nel riserbo e dunque anche il ruolo della Turchia è destinato ad estendersi. E questo è un fatto saliente per l’intera regione. Lo stesso vale per i rapporti con l’Iran, per ora siamo alla “politica dei dispetti”. Ma l’accordo sul nucleare rimarrà un’acquisizione permanente. Ad Obama si può imputare una politica di “debolezza” nella gestione siriana e in Iraq, fattore che ha reso possibile indirettamente l’espansione del terrorismo e la permanenza al potere a Damasco del regime che è stato il volano della nascita e dell’espansione dell’Isis. Ma uscendo dal Medioriente, Obama ha riportato la crescita nell’economia americana e la piena occupazione, effetti di cui beneficia a piene mani Trump in questi primi mesi».
Le dichiarazioni pubbliche inequivocabili dell’ex presidente Matteo Renzi a favore di Hillary Clinton potranno pregiudicare le relazioni tra Roma e Washington?
«Ogni paese europeo si è schierata contro Donald Trump. Solo Nigel Farage nel Regno Unito lo ha appoggiato».
Luigi Marcadella
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