In Thailandia torna il terrore: le forze armate hanno dichiarato la legge marziale
Non lontano dalle mete dei turisti occidentali, nella capitale di quello che viene chiamato il «Paese dei sorrisi» – segnato, ironia della sorte, da ben 18 colpi di Stato, dalla nascita della monarchia costituzionale, nel 1932, in poi -, torna il terrore: le forze armate hanno dichiarato la legge marziale. I militari lo hanno imposto senza consultare il governo, basandosi su una legge del 1914 che gli consente di imporre la legge marziale in particolari momenti di crisi. Il capo dell’esercito thailandese, il generale Prayuth Chan-Ocha, ha subito sostenuto che non si tratta di un colpo di stato ma c’era il bisogno di «restaurare la pace e l’ordine pubblico» aggiungendo che «la legge marziale rimarrà in vigore fino a quando sarà necessario». Intanto sempre l’esercito ha sciolto il «Centre for the administration of peace and order», che era controllato dal governo, ed ha istituito un nuovo centro di peace-keeping, il «Peace and order maintaining command».
La decisione dell’esercito è arrivata proprio quando Suthep Thaugsuban – con un mandato d’arresto pendente sulla sua persona – ha annunciato l’avvio di una «battaglia finale» per rovesciare l’attuale amministrazione ad interim. Panitan Wattanayagorn, professore di scienze politiche all’Università Chulalongkorn, che sostiene che i manifestanti antigovernativi siano ormai «disperati», ha commentato che «l’imposizione della legge marziale potrebbe essere vista come un sostegno ai loro sforzi per rovesciare il governo ad interim». E’ certo che l’intervento dell’esercito non può che far piacere ai manifestanti antigovernativi. Da tempo, infatti, Suthep Thaugsuban – sostenuto dalla borghesia degli affari, dagli ambienti vicino alla monarchia e dai vertici dell’esercito – e i suoi uomini, avevano chiesto l’impiego dei soldati per ristabilire l’ordine.
I disordini nel Paese sono iniziati nel novembre scorso, quando i manifestanti antigovernativi, guidati da Suthep Thaugsuban, per chiedere le immediate dimissioni del governo di Yingluck Shinawatra – sorella di Thaksin Shinawatra, per anni primo ministro thailandese, ora in esilio – e la riforma del sistema politico, hanno invaso le strade di Bangkok paralizzando gran parte della città.
Il bilancio delle violenze, dall’inizio delle proteste ad oggi, è di 28 morti e oltre 800 feriti. Il governo ad inizio gennaio aveva imposto lo «stato di emergenza» di 60 giorni, ma non era bastato. Il 18 febbraio scorso, quando le forze di sicurezza hanno provato a sgomberare – senza riuscirci – i presidii antigovernativi nella zona di Phanfa Bridge, vicino al Palazzo del governo, ci sono stati gli scontri più sanguinosi: 6 morti – 2 poliziotti e 4 civili – e oltre 60 feriti. L’ultimo attentato risale al 15 maggio, dopo la destituzione del premier Yingluck Shinawatra da parte della Corte costituzionale. L’attacco notturno, avvenuto contro un accampamento dell’opposizione davanti al Monumento per la democrazia, ha causato la morte di 3 manifestanti e 23 feriti.
E’ bene ricordarci anche dei disordini politici del 2010, quando i sostenitori di Thaksin – le «Camicie rosse» -, avevano paralizzato Bangkok nel tentativo di far cadere il governo guidato dal Partito Democratico, ora principale partito d’opposizione. Le sanguinose proteste di quattro anni fa, dopo che il governo autorizzò l’esercito a sparare contro i civili, portarono alla morte di 90 persone – tra cui il fotoreporter italiano Fabio Polenghi che si trovava a Bangkok per documentare le proteste – e 2 mila feriti.
Per capire cosa succederà ora bisogna aspettare. Di certo il Paese rimane spaccato in due e la possibilità di nuove ondate di violenza potrebbe arrivare da un momento all’altro. Soprattutto se i manifestanti – pro e anti Shinawatra – decideranno di mettersi in marcia nei prossimi giorni anche con il divieto imposto dall’esercito.
Fabio Polese
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