Si preannuncia una lunga, lunghissima campagna elettorale a Taiwan, le cui sorti promettono di andare ben oltre il destino dell’arcipelago della Repubblica di Cina, sua denominazione istituzionale negletta ma antica. Se l’attenzione dei media occidentali si è concentrata, comprensibilmente, sull’ascesa di Pechino a vero deuteragonista di Washington nell’attuale sistema internazionale, le dinamiche in atto a Taipei rivestono un’importanza strategica del massimo rilievo per la proiezione esterna della Repubblica popolare cinese.
Inseparabilmente dalla belt and road initiativee dalla superpotenza commerciale acquisita da Pechino nei suoi recenti anni ruggenti, i dirigenti del partito comunista cinese cercano di trasformare le forze armate della Repubblica popolare in uno strumento di proiezione esterna adeguato alle guerre guerreggiate. Non di sole guerre tariffarie o cibernetiche si dovrà fregiare il nuovo esercito popolare di liberazione, certamente il più numeroso al mondo come consistenza di effettivi, ma sicuramente non il più potente.
Questo non significa che Pechino ricercherà occasioni di scontro diretto con i suoi competitor, ma che stia investendo in un rafforzamento e una trasformazione delle forze armate tale da permettere la tutela degli interessi cinesi nel globo e una maggior incisività politica nei teatri di instabilità con missioni militari non necessariamente multilaterali. Questo aspetto può sembrare ovvio, come asserire che la potenza militare permette la deterrenza solo se questa potenza è credibile, dunque dotata di credibili strumenti di proiezione esterna. Marina e aeronautica in primis. E qui entra in gioco quella che un tempo si chiamava Cina nazionalista, perché collocata – oggi come allora – come un saliente naturale nel vastissimo perimetro costiero della Cina popolare. Gli arcipelaghi delle Quemoy e Matsu, parte del territorio nazionale di Taipei sono dirimpetto alla costa continentale, profondamente inseriti nelle acque territoriali di Pechino e già oggetto delle prime due crisi dello stretto di Formosa del 1954 e del 1958, quando le due Cine giunsero ai primi scontri armati. Il presidente della Cina comunista Mao Zedong ritenne, erroneamente, che gli Stati Uniti non avrebbero difeso il loro alleato cinese Chiang Kai-Shek, presidente a vita di Taiwan.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, e Taipei si è trovata sempre più isolata diplomaticamente, perdendo nel 1971 il riconoscimento degli Stati Uniti e il seggio permanente nel consiglio di sicurezza dell’ONU. Un lento processo di emarginazione che si è però intrecciato con la transizione da un regime autoritario erede della guerra civile cinese a una società aperta, già economicamente dinamica, che attraverso passaggi talvolta sofferti ha compiuto avanzamenti del massimo rilievo sul piano dei diritti civili e politici. Ma questo non ha cambiato la topografia del territorio nazionale della Repubblica di Cina, e quindi il nodo elettorale prossimo venturo diventa determinante per il dilemma di Tucidide che si pone nel mar cinese.
L’attuale presidente della Repubblica di Cina, Tsai Ing-Wen, è la prima donna a ricoprire quella carica e fermamente intenzionata a mantenere l’autonomia delle isole da Pechino, assumendo una posizione netta rispetto alle esercitazioni condotte nel 2016, anno della sua elezione, nello stretto di Taiwan della marina dell’esercito popolare di liberazione. Dirigente del Partito progressista democratico, formazione oppositrice del Guomindang e del suo candidato, Eric Chu, il presidente Ing-Wen ha risposto alla dimostrazione di forza militare di Pechino con vaste esercitazioni anti invasione. Come ha scritto Morabito su Atlantico(23 febbraio 2019), le esercitazioni di Taiwan sono proseguite regolarmente, segnando una massiccia prova di forza il 17 gennaio scorso di fronte a un possibile sbarco delle forze di Pechino sulla costa occidentale di Formosa.
In questi anni di presidenza di Ing-Wen, Pechino ha esercitato forti pressioni economiche che hanno invertito un trend di interscambio fra le due Cine, pressioni di cui Taipei ha risentito: a dimostrazione del fatto che ancora lo strumento di politica estera più efficace dei dirigenti comunisti cinesi pare essere quello economico. Tuttavia alla fine dello scorso mese Ing-Wen ha annunciato la propria candidatura per un secondo mandato, rispondendo così all’appello di gennaio del presidente della Repubblica popolare Xi Jinping ai cinesi di Taiwan, affinché abbandonino l’indipendenza e si unifichino spontaneamente con Pechino. Una prospettiva che il presidente Ing-Wen ha dimostrato di non voler accettare.