Eccoci di nuovo a voi, cari amici del Nodo di Gordio che resistete disperatamente all’orgia quotidiana di banale mediatico. L’ultima di stamani è un lancio di agenzia nazionale sul fatto che ai malati di tumore ai polmoni farebbe male il fumo delle sigarette! Ma no? Pensavo il contrario…
Andiamo avanti ed occupiamoci di una serie televisiva che avevamo colpevolmente trascurato: Yellowstone. Premessa d’obbligo: mi raccomando guardatela col parlato originale, ci sono i sottotitoli in italiano. Così non perdete la meravigliosa voce roca, bassa, di Kevin Costner, l’Uomo che attraversa la vita abbracciato al proprio destino fino in fondo.
La quarta stagione di Yellowstone sembrava svolgersi in sordina, ma ad un certo punto ha preso ad accelerare fino ad esplodere nei due episodi finali in un ciliegio di fuochi d’artificio. John Dutton che rivela, ma già lo sapevamo, la sua pietà per i deboli, chè la lotta al Male non può fare comunque a meno dell’etica. Beth, l’indomita figlia, la bellissima Beth votata alla difesa ad oltranza del patrimonio di valori della famiglia contro il vampirismo del capitalismo politico, costretta a coglierne la lezione da Rip che ha fatto della fedeltà alla famiglia che lo ha adottato la ragione stessa della vita e non è disposto neanche per amore di Beth a tradire la sua missione. Anzi la costringe in una scena commovente a chiedere scusa al padre che non aspettava altro per dirle I love you. Roba da far piangere il vecchio Clint ed il suo Macho, che non abbiamo ancora visto ma abbiamo visto gli altri.
E che dire di Kayce, l’altro figlio, commissario al bestiame – non ho mai visto rappresentata così bene l’intelaiatura dei poteri pubblici alla base del federalismo USA – che, quasi per scontare il peccato originale del genocidio amerindi, non c’è thanksgiving che tenga, si fa iniziare ai loro riti sacri. Quasi ci riporta indietro di cinquant’anni al Richard Harris di Un Uomo chiamato cavallo, un cult molto cruento per l’epoca.
Ma il punto più alto di questa vera e propria contro-narrazione dell’Impero lo raggiunge sempre lui, John Dutton, quando spiega il lockdown, nomina sunt consequentia rerum, che lega gli Indiani nella riserva ed i bisonti nel parco, poche parole asciutte che valgono più di tutta la melassa furbesca della cancel culture. Un giudizio affilato che non concede niente al romanticismo del sette volte oscarizzato Balla coi lupi, nè alla denuncia di Soldato Blu e de Il piccolo grande uomo. È andata così, sembra dire Kevin Costner trent’anni dopo Join J. Dunbar, ricordando il suo bisnonno che in un episodio precedente lascia una vacca ad una tribù affamata, facendoci riandare al magnifico Josey Wales – The Outlaw Josey Wales, pessimo il titolo nella versione italiota Il texano dagli occhi di ghiaccio – del 1976, al suo incontro con Orso Bruno. Il nostro Clint è sempre più di un passo avanti.
Insomma, mentre noi trasferiamo nelle fiction il politicamente corretto più fracido, non tiriamo fuori il cattolicesimo per cortesia che ha invece prodotto nella sua storia figure politiche ed umane forti, il cuore e la mente dell’Impero ci colpiscono ancora con una lezione di valori ancestrali. Famiglia, lealtà, amore, pietas per i deboli, insieme alla ineluttabilità dello struggle for life che è il sale dell’epopea migratoria nordamericana, la spietatezza del vivere e del lavoro come nella bellissima Amerigo di Francesco Guccini. Riascoltatela se non la ricordate e meno bollettini sul Covid e più Jack London mi verrebbe da suggerirvi…
La Redazione
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