Di Andrea Marcigliano
La penetrazione di quello che siamo soliti chiamare ”islamismo radicale” nella regione del Caucaso non è, come si potrebbe ritenere a tutta prima, un evento particolarmente recente. I legami tra gruppi ed organizzazioni caucasiche – soprattutto ceceni ed ingusci – con il wahhabismo arabo e, in seconda istanza, con la rete del terrorismo fondamentalista, può essere ricondotto almeno ai tempi dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan; quando – secondo stime di fonti USA – alcune centinaia di “caucasici” militarono nelle formazioni mujaheddin, gettando le basi dei legami tra i loro capi, i Talebani e la nascente rete di Al Quaeda. Anche se si potrebbe ipotizzare un’influenza ben più antica, riconducibile alla cupa stagione delle “purghe” staliniane, che colpirono con particolare ferocia Ceceni ed Ingusci, accusati di “intelligenza” con i tedeschi durante l’offensiva di questi nella regione. Tradimento pagato con la distruzione delle due (piccole) repubbliche caucasiche sovietiche e con la deportazione della maggioranza delle due popolazioni. Che uscirono letteralmente decimate – i soli ceceni ridotti a meno di un terzo della popolazione originale – da questa tragedia, potendo tornare a stabilirsi nelle loro terre avite solo dopo la “destalinizzazione” di Krusciov. Negli anni delle deportazioni staliniane, molte migliaia di ceceni ed ingusci – si parla di oltre 250000 – ripararono nel vicino medio-oriente ed in particolare in Giordania, venendo bene accolti dalle popolazioni locali. I contatti e gli inevitabili legami di ospitalità che si sono venuti a creare in quegli anni, avrebbero cominciato a mettere in contatto i due popoli caucasici con “forme” dell’Islam diverse da quelle della loro tradizione. E, in particolare, con le “dottrine” integraliste di scuola salafita e con il wahhabismo saudita, che cominciava – proprio all’indomani della II guerra mondiale – la sua lenta ed inesorabile espansione. A conferma di questa tesi, si può portare l’evidenza della presenza significativa, oggi, di arabi –giordani tra le guide della guerriglia di ispirazione fondamentalista in Cecenia. Giordano è l’emiro Abu Hafs, che è a capo di una sorta di “brigate internazionali” che combattono ed operano a fianco dei guerriglieri ceceni di Shamil Basayev, gruppi formati oltre che da tagiki, pachistani e maghrebini, anche da arabi sauditi, giordani e financo sudanesi. Giordani sono anche Abu Omar al-Seif, considerato l’”ideologo” del wahhabismo nel Caucaso e il comandante militare Abu al-Walid. Ma soprattutto giordano era Amir Katthab – nome di battaglia di Habib Abd al-Rahman – eliminato dai servizi segreti russi nel 2003, fraterno amico di Basayev, che ha rappresentato la cinghia di collegamento tra questi ed i vertici di Al Quaeda.
Indipendentemente dalle sue origini e cause storiche, la penetrazione del radicalismo islamico nell’area caucasica ha potuto approfittare della profonda crisi e del travagli di tutta la regione negli anni successivi al crollo dell’URSS. Anni in cui, come dicevamo, la nuova Russia era troppo assillata dalla sua crisi economica e strutturale interna per poter dare un assetto stabile – o anche solo una parvenza di governo – alle piccole e riottose “repubbliche” site ai suoi confini meridionali. Piccole, eppure strategicamente determinanti. Basta osservare con attenzione una carta geografica per afferrare, con immediatezza, come la “catena” di repubblichette caucasiche – affiliate, volenti o nolenti, alla Federazione Russa – trascenda di molto, per importanza geopolitica, quella che è la loro effettiva dimensione territoriale e demografica. Una “cintura di sicurezza” formata da sei “repubbliche” – Cecenia, Inguscezia, Ossezia Settentrionale, Daghestan, Cabardino-Balkaria, Caraciaia-Circassia – che separa, e al contempo connette, il territorio sotto l’egida di Mosca dalle tre maggiori repubbliche ex-sovietiche del Caucaso : Armenia, Azerbaijan, Georgia. Nominalmente affiliate, queste, alla CSI, ma di fatto già da oltre un decennio completamente svincolate dalla Russia e oggetto delle strategie politiche di potenze grandi e piccole. Ché, se è vero che gli USA hanno molto “investito” – in termini sia politici che economici – sulla Georgia, attraendola nella loro orbita e facendone una sorta di testa di ponte nel Caucaso, anche l’Iran e la stessa Turchia giocano una loro, personale, partita nella zona. Avendo come “posta” soprattutto l’Azerbaijan, la cui popolazione è, in stragrande maggioranza, al tempo stesso di ceppo turco e di religione sciita. Ankara, dunque, usa la comune origine etnica e le radici storiche dell’impero ottomano per penetrare nella regione, mentre Teheran ricorre allo strumento della penetrazione e dell’influenza religiosa, “aiutando” i fratelli sciiti azeri a ricostruire le loro strutture religiose dopo i decenni dell’ateismo di stato imposto dai Soviet. Per tutti, mettere un piede nel Caucaso è fondamentale: di lì passano- e sempre più passeranno in futuro – le linee del petrolio e del gas del Caspio; da lì, inoltre, è storicamente possibile dominare la regione del Golfo ed incidere sui suoi equilibri politici. Perciò il Cremlino non può non considerare strategiche le sei piccole sorelle caucasiche. Strategiche per continuare a controllare la regione montuosa e, soprattutto, per influire in modo determinante sulle tre repubbliche più grandi, un tempo sue satelliti, che la politica di Putin vorrebbe ricondurre oggi all’”obbedienza”. Per i Russi il Caucaso è, a tutti gli effetti, il “giardino di casa”, il confine del proprio (vitale) spazio geopolitico. Ma è un giardino infestato da rovi taglienti e piante velenose.Lo è da sempre: ché la riottosità delle popolazioni caucasiche del nord ad assoggettarsi a Mosca risale ai tempi degli Zar, ai secoli XVIII e XIX. Chi ha letto i poemi di Mikahil Lermontov – uno dei geni del romanticismo russo – ricorderà forse le (suggestive) descrizioni delle lotte tra la guardia imperiale ed i “feroci” Circassi. E ancora tutta la storia del “Grande Gioco”, del conflitto strisciante tra Russia e Gran Bretagna per il controllo delle via d’accesso ad Oriente, che ebbe luogo tra fine ‘700 ed inizi ‘900, è intersecata di rivolte dei diversi popoli caucasici contro gli Zar, sovente fomentate e sempre appoggiate dall’intelligence inglese. Il Caucaso non è mai stata una zona sicura per i russi; e solo il terrore di Stalin – dopo che molti di questi popoli avevano cercato di sfruttare prima la rivoluzione, poi addirittura l’offensiva tedesca nella II guerra mondiale, per svincolarsi dal potere di Mosca – sembrò, per un momento, riuscire nell’intento di domarli. Oggi, ad oltre un decennio dal crollo dell’URSS, la regione è tutt’altro che pacificata; con in più l’aggravante che sui vecchi indipendentismi e conflitti etnici è venuto ad innestarsi il “tossico” del radicalismo islamico. Che era – sino agli ultimi cinquant’anni del ‘900 – sostanzialmente estraneo ai popoli dell’area. In effetti la maggioranza delle popolazioni caucasiche è di fede islamica, con l’eccezione, vistosa, degli Osseti, cristiano ortodossi, e dei cosacchi che costituiscono circa i 40% della popolazione della Caraciaia-Circassia. Vi sono, poi, naturalmente, consistenti minoranze russe importate (forzatamente) in età zarista e/o sovietica; ma resta comunque il fatto che il caucaso “russo” è a maggioranza islamico. Un Islam, tuttavia, molto variegato e molto “particolare”, tradizionalmente estraneo ai rigori dottrinari proprie della cultura araba del vicino-oriente. Un Islam dove grande influenza ha sempre avuto il sufismo, la tradizione delle scuole (tariqa) esoteriche, che tendono ad interpretare il modo molto “libero” e certamente non letterale la legge del Profeta. Nel sufismo di area caucasica agiscono, tradizionalmente, influssi delle culture iraniche e turche pre-islamiche, che ne hanno (forse) contaminato la “purezza” , ma che certo l’hanno sempre reso più “tollerante” ed aperto. Tant’è vero che le periodiche rivolte dei popoli caucasici contro il dominio russo sono state ben raramente caratterizzate da un elemento religioso; e quando pure questo è avvenuto, la “guerra santa” è sempre stata interpretata come uno strumento per liberarsi della dominazione straniera ed affermare la propria indipendenza nazionale e culturale. Ancora nei primi anni ’90, per fare un esempio, i principali leaders dell’indipendentismo ceceno, a partire dal Presidente Maskhadov, erano sostanzialmente estranei ad ogni forma d’integralismo. Educati ad una cultura “sufi”, vedevano la lotta, anche armata, contro Mosca esclusivamente in un’ottica di indipendenza nazionale. Indipendenza conseguita, effettivamente, subito dopo il crollo dell’URSS, con la fondazione della nuova repubblica di Iskeria. Repubblica, però, rapidamente tracollata nelle frammentazioni intestine e nelle lotte fra clan rivali. Ché proprio nel momento in cui sembrava aver raggiunto la ( sospirata) indipendenza, la Cecenia evidenziò tragicamente un male endemico a tutte le piccole repubbliche Caucasiche. L’assoluta mancanza di una vera tradizione politica e statuale nazionale. Le culture dei popoli del caucaso sono infatti, tradizionalmente, espressione di realtà frammentate, di una struttura sociale fondata sui clan familiari, e mancano di qualsiasi riferimento per la costruzione di uno stato moderno. Che in quelle terre è stato sempre conosciuto solo attraverso l’imposizione del potere moscovita. E proprio l’incapacità – o forse l’impossibilità – delle repubbliche caucasiche di autogovernarsi ha, in certo qual modo, costretto Mosca ad impantanarsi militarmente nella zona, non potendo il Cremlino permettersi una situazione di anarchia ai suoi confini meridionali. Di qui la, sempre più purulenta, questione cecena, usata dai fondamentalisti islamici come testa di ponte nella regione. Ne sono la riprova i “fatti” del Daghestan, quando con il trattato di Khasavyurt – firmato nell’agosto ’96 – il governo Eltsin aveva riconosciuto l’indipendenza dell’Iskeria e si era impegnato con Maskhadov al ritiro delle proprie truppe. Ma subito dopo – nel ’98 – gruppi di guerriglieri ceceni ed ingusci guidati da Basayev scatenarono una sanguinosa offensiva contro il vicino Daghestan, con lo scopo dichiarato di costruire la “grande Cecenia”, o meglio, un Califfato islamico su tutto il territorio del Caucaso “russo”. Di qui la dura reazione del Cremlino, guidato ormai da Vladimir Putin, ed il ritorno delle truppe russe a Grozny. Con il seguito di sangue e tragedie che giunge sino ai giorni nostri, sino al massacro di Beslan. Ove, ancora una volta, vediamo fondersi antichi conflitti etnici – tra gli osseti e i ceceno-ingusci – con elementi di uno “scontro di civiltà” portato avanti con tragica coerenza dai fautori di un certo islamismo radicale.2. continua(?)