Molti italiani in età matura ricorderanno che, in tempi non vicinissimi, molti lavorati in plastica recavano impressa in rilievo la scritta “Made in Taiwan”. La capacità economica e industriale della repubblica di Cina (Taiwan), messa in ombra dall’emersione della potenza economica della Cina popolare, non è diminuita in valore assoluto, anzi: l’interscambio con l’Italia ha segnato un record nel 2018. Secondo i dati resi noti dal ministero degli Esteri di Taiwan, le esportazioni verso l’Italia hanno ammontato a 2,456 miliardi di dollari statunitensi, mentre le importazioni dall’Italia hanno segnato la ragguardevole cifra di 2,691 miliardi della stessa valuta. Un disavanzo a favore dell’Italia di 234 milioni di dollari statunitensi, e una crescita tendenziale nel corso del passato decennio. Ciò dimostra che esistono delle vie della seta a doppio senso di marcia.
Il problema dei futuri rapporti commerciali con la Repubblica popolare cinese – sollevato da più parti in seguito alla visita del presidente Xi Jinping in Italia e alla firma del memorandum d’intesa – è dunque intersecato con le precedenti relazioni economiche italiane verso l’intero sistema asiatico. Un sistema in dinamica ridefinizione per via degli investimenti infrastrutturali di Pechino nel quadro della “Belt and road initiative”, e che può offrire spazi inediti per il commercio italiano, se affrontato con coraggio e iniziativa politica. L’esempio taiwanese lo dimostra: l’Italia è il quinto partner commerciale europeo di Taiwan, ma anche Taiwan è il quinto partner commerciale asiatico dell’Italia. La materia dello scambio è diversa, come è normale che sia in un commercio virtuoso. Taiwan esporta in Italia acciaio, turbine, utensili, biciclette, cellulari, LED e plastiche; l’Italia esporta a Taiwan circuiti integrati elettronici, pelletteria, medicinali, prodotti dell’industria aeronautica e automobilistica, oltre ai classici moda e food&wine.
Dietro questi dati c’è una sostanza politica che rende le relazioni fra Roma e Taipei molto più rilevanti rispetto alla scarsa notorietà che esse incontrano nel pubblico italiano. Questo vivace interscambio commerciale dovrà relazionarsi con l’atteso ulteriore incremento dell’interscambio con la Cina popolare e con gli effetti della realizzazione della “Belt and road initiative”. Se queste relazioni non avranno un indirizzo politico che sappia guardare alle trasformazioni in atto, rischieranno di essere perdenti per tutti i soggetti italiani, sia politici che economici. Le condanne inflitte ieri ai leader della protesta degli ombrelli di Hong Kong, danno il segno di quanto siano distanti i sistemi politici e le società civili non solo dell’ex colonia britannica, ma soprattutto di Taiwan rispetto a Pechino. Il 2 aprile, lo sconfinamento di caccia della repubblica popolare cinese oltre la linea di mezzeria del canale di Formosa ha provocato la reazione dell’aviazione taiwanese che ha respinto i caccia nella parte continentale del canale. La linea di mezzeria del canale è – per tacita convenzione fra le due Cine – un limite per entrambe le forze aeree, e secondo fonti taiwanesi Pechino ha intrapreso tale azione in risposta al transito del naviglio da guerra statunitense nello stretto di Formosa, appunto.
Uno scontro armato fra Pechino e Taipei andrebbe a detrimento non solo delle parti, ma dei rapporti di entrambe con l’Italia, proprio mentre queste relazioni vivono un periodo particolarmente interessante. Ricordiamo che Taiwan è il più importante Stato de facto del pianeta, cioè non riconosciuto dalla Nazioni Unite, dunque come raccomanderebbe l’arte della diplomazia sarebbe interesse collettivo una ripresa del dialogo fra le due Cine anziché del conflitto. Nemmeno i giornalisti taiwanesi vengono accreditati presso le organizzazioni internazionali, come riporta RSF (https://rsf.org/en/news/rsf-calls-un-accredit-taiwanese-journalists): invece l’accesso alla libera stampa certamente favorirebbe ogni possibile, futuro dialogo fra asiatici e europei.
Matteo Gerlini
Università La Sapienza