L’Ambasciatore Giulio Prigioni interviene su prospettiva eurasiatica, Bielorussia, Ucraina, grandi player e ruolo dei fondi sovrani
Pubblichiamo sul Nodo di Gordio, il gradito intervento dell’Ambasciatore Giulio Prigioni. Diplomatico di lungo corso, Prigioni è stato Ambasciatore Straordinario e Plenipotenziario d’Italia a Minsk, in Bielorussia, e in Lituania. In precedenza aveva ricoperto l’incarico di Console Generale d’Italia a San Francisco e dal 1970, quando entra nel corpo diplomatico italiano, ha svolto con passione i ruoli di primo piano che gli sono stati assegnati nelle strutture del Ministero degli Affari Esteri. Dal 2011 è Presidente del Centro Internazionale di ricerca “Carlo Cipolla” sulla diplomazia economica e finanziaria. In questo intervento l’attenzione dell’Ambasciatore Prigioni si sofferma sulle evoluzioni della prospettiva eurasiatica dopo la caduta dell’Unione Sovietica, sull’importanza strategica di Bielorussia e Ucraina nel “Grande Gioco” energetico e sul ruolo, sempre più importante, rivestitito dai fondi sovrani nelle dinamiche di sviluppo economico e di investimento da parte dei Paesi mediorientali.
L’Eurasia fra realtà e storia
La caduta dell’Unione Sovietica è stata un evento fondamentale non solo nella storia dell’Eurasia ma con ogni probabilità anche nella storia del genere umano. Il crollo del Socialismo Reale – crollo che è avvenuto a partire dalla sua testa, da Mosca invasa dai carri armati (e non, che so, da Cuba o dal Vietnam) – ha riportato i Paesi dell’Europa orientale nell’alveo che la natura e la Storia pre-sovietica aveva reso loro naturale, quello mitteleuropeo. Ma se è innegabile che l’esperienza sovietica verrà vista solo come un battito di palpebre ad esempio nella storia di Paesi come quelli baltici, che già avevano vissuto la loro indipendenza nel ventennio fra le due guerre mondiali, o in quella della Georgia, sostenuta da una propria unica, forte, identità nazionale, linguistica e politica, per altre repubbliche ex sovietiche, soprattutto dell’Asia centrale, il crollo dell’URSS è stato un crollo molto più personale, e per certi versi più intimo. È stato anche un crollo di sé, è stato “più crollo” che per gli altri Paesi.
I cosmonauti o gli atleti ucraini, i marinai bielorussi (Paese, tra l’altro, oggi senza accesso al mare) che prestavano servizio sui sottomarini nucleari dell’URSS, erano prima di tutto sovietici. Erano parte di un mondo che nel bene e nel male era molto più vasto, erano in sostanza parte di un mondo russofono la cui cultura era quella di un continente variegato ed energico, a loro modo erano “cosmopoliti”, parte cioè di una più vasta Kosmos-politìa.
Va ricordato – ce ne dimentichiamo purtroppo spesso – che la maggior parte delle ex repubbliche sovietiche, soprattutto centroasiatiche, non ha avuto nella propria storia nazionale che qualche accenno del nazionalismo europeo ottocentesco, all’italiana, all’ungherese o alla polacca per intenderci. Riviste considerate nazionaliste come “Nashe Delo” etc.. (che vide per diversi anni l’attiva collaborazione del grande Nikita Giljarov-Platonov, riscoperto da me e da Luca Zanni per la prima volta, e ripresentato e commentato da noi anche in Italia: cfr. “Economia ed Etica secondo Nikita Giljarov-Platonov, ed. Palomar, 2011) erano sì nazionaliste nel senso di panslaviste o slaviste ma mai in senso etnico-linguistico. È stato dunque naturale che i primi Paesi a voler ricominciare ad avere un destino comune con i russi, proprio perché non più sovietici ma allo stesso tempo non ancora “altri”, siano stati l’Ucraina e la Bielorussia i cui leaders di allora si incontrarono quasi come cospiratori nel profondo della foresta bielorussa l’8 dicembre 1991 per creare una nuova entità politica: la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI).
Solo dopo le aspre proteste del leader del Kazakistan vertenti sul fatto che l’URSS non era solo un mondo slavo e il suo Paese rappresentava pur sempre il secondo Paese in termini di grandezza dell’ex URSS, l’esercizio creativo fu ripetuto ad Alma Ata, allora capitale appunto di quel Paese dell’Asia centrale, il 21 dicembre successivo ottenendo poi l’adesione alla nuova unione da parte di 11 delle quindici ex repubbliche sovietiche, senza quindi i tre Paesi baltici e la Georgia. Per farla breve, è noto come la CSI ebbe vita stentata per anni e i suoi membri europei si siano presto dimostrati turbolenti: in ultima analisi, l’Unione sembrava loro alquanto velleitaria.
L’Ucraina e la Bielorussia, pur Paesi co-fondatori, certamente più decisamente la prima con la cosidetta rivoluzione arancione che la seconda che doveva vedersela con un nuovo energico Capo dello stato, iniziarono un processo di avvicinamento ai Paesi dell’Unione Europea, proponendosi almeno per un primo tempo quali utili stati cerniera fra le due aree. Anche tale processo tuttavia divenne a un certo punto insostenibile. Un importante fatto di politica economica internazionale si presentò all’improvviso sulla scena di quello scacchiere. I due Paesi più importanti dei due schieramenti, cioè Germania da una parte e Russia dall’altra, si accordarono e realizzarono (il primo pur limitato ammontare di gas è partito quasi in sordina dalla Russia pochi mesi fa) nonostante le più alte proteste di molti Paesi dell’uno e dell’ altro blocco, il gasdotto Northstream. In poche parole Russia e Germania, storicamente confinanti, ritornano ad esserlo, saltando ogni altro Paese vicino, grazie al quale le case e le imprese tedesche potranno ricevere direttamente il gas russo attraverso il mar Baltico: una cinica manovra della Germania sull’altare dell’interesse nazionale. Fine della partita.
La Bielorussia e l’Ucraina fra crisi economica e crisi identitaria
Quando sei un Paese che trae la propria forza dal fatto che per arrivare al consumatore una peculiare materia prima come il gas deve necessariamente passare sul tuo territorio ottenendo royalties e rispetto delle tue norme, nel momento in cui tale passaggio viene improvvisamente marginalizzato tutto un sistema viene improvvisamente a sbriciolarsi sotto i tuoi occhi. Ecco come il tradizionale ruolo geostrategico che la Bielorussia (che appunto aveva addirittura modificato il proprio nome in Belarus per ricreare una sua originale idea nazionale ) e l’Ucraina (che aveva vissuto con entusiasmo la rivoluzione arancione) si erano così faticosamente ritagliate dal crollo del Russkoye Mir, il “mondo, l’universo russo”, è stato da un giorno all’altro messo sotto scacco da tale inconsueta operazione.
Perso così malamente il suo ruolo di potenziale stato-cerniera, il Belarus in particolare in seno alla nuova Unione Euroasiatica non potrà che riprendersi quello tradizionale ma molto meno forte di un grande potenziale agricolo, grande produttore di fosfati, di alcune industrie meccaniche, anche di precisione, che potranno avere un boost da questa Unione. Ma non dimentichiamo che, secondo le statistiche più accreditate, la Russia (e l’Unione pertanto) dovrebbe raggiungere nel 2020 il quarto posto al mondo in quanto a Prodotto Interno Lordo dopo gli Stati Uniti, la Cina e il Giappone.
È per tutti questi motivi che parecchi osservatori danno oramai per scontata anche l’adesione all’Unione Euroasiatica da parte dell’Ucraina. In tal modo i due blocchi si troveranno di nuovo gomito a gomito e dovranno fare scelte importanti. Spetterà allora all’Unione europea, se saprà divenire una vera Unione, muoversi ad armi pari e in tempo perché tale situazione possa divenire una enorme opportunità politica ed economico-finanziaria per tutti, Italia compresa. Una breve chiosa a parte merita infine la questione valutaria. Nonostante infatti da anni si parli di adottare il rublo russo in Belarus e perfino in Kazakistan, il progetto continua ad essere in alto mare, nonostante l’anno scorso il rublo bielorusso sia collassato. Perché ciò si realizzi è necessario che queste tre repubbliche che ora si uniscono in Unione tariffaria e doganale dimostrino al più presto di costituire una vera “optimum currency area”. A mio giudizio si arriverà fra non molto ad una revisione non solo del sistema finanziario dei Paesi dell’Unione Euroasiatica appena nata ma del sistema monetario di tutti quelli dell’intera Eurasia e anche oltre. Gli stessi studi effettuati di recente da Luca Zanni in relazione alla presenza bancaria estera in Ucraina dimostrano in effetti quanto la strategia dei grandi gruppi finanziari, anche ahimè italiani, sia stata finora fallimentare (Unicredit ha recentemente messo a bilancio perdite – e non minusvalenze – nell’area per ben 10 miliardi di euro, e non è cosa da poco con i tempi che corrono).
I grandi player
Generalmente si considera che i grandi player dello scenario euroasiatico siano la Russia, la Cina, e forse gli Stati Uniti ma si sta facendo avanti prepotentemente nell’area in cinica e perfetta solitudine, come si è visto anche con il progetto Northstream, la stessa Germania. Non vanno peraltro scordati alcuni attori minori anche se la Turchia rischia di rimanere l’unica dopo che l’Italia, pur fattasi avanti con lungimiranza per svolgere un ruolo attivo e promettente nell’area attraverso l’idea vincente di Southstream sembra al momento segnare il passo impelagata com’è in una crisi non del tutto sua e che a tratti sembra persino spintonata qua e là nella tempesta, guarda caso, da pregiudizi o da falsi obiettivi imposti Oltralpe.
E i fondi sovrani?
È inevitabile che i grandi fondi sovrani, soprattutto del Medio Oriente, si interesseranno via via sempre più ad un’area che non solo è geostrategicamente vitale per i loro interessi (legati in qualche modo alle materie prime e alle Energy lifelines un po’ ovunque), ma che anche da un punto di vista finanziario sarà sempre più sviluppata. Inoltre non va dimenticato che non solo il Kazakistan, il Kirhizistan e il Tajikistan sono paesi a maggioranza mussulmana, ma che la stessa Russia conta milioni di cittadini di religione islamica. Finora i fatti della Cecenia e in genere del Grande Caucaso hanno distolto l’attenzione dalle opportunità di investimento, ma tutto ciò è destinato a cambiare, e sta già cambiando (si pensi solo alle ambizioni calcistiche della piccola Repubblica del Daghestan). Ritorna quindi prepotentemente d’attualità la ricerca che feci con Luca Zanni sui Fondi Sovrani solo due anni orsono (cfr. “I Fondi Sovrani e il Nuovo Ordine Economico Finanziario”, Rubbettino, 2008), con particolare riguardo alla nascente e per certi aspetti già molto fiorente industria dell’Islamic Finance, che genera centinaia di migliaia di posti di lavoro in Paesi come la Malaysia, Singapore o il Golfo, e che è il contrappeso ideale alle mire espansionistiche cinesi (importantissimo Fondo Sovrano). E che cosa faranno invece i Paesi dell’Unione Europea in piena crisi e con politiche contraddittorie anche fra loro stessi?
brillante intervista!!!!
sono un politologo esperto in affari internazionali, complimenti anche per il sito!