Il fenomeno Trump è un tormentone, per alcuni benevolo per altri catastrofico, non solo legato alla sfera americana. Non si parla infatti soltanto del tycoon dal ciuffo arancione, ma anche di Rodrigo Duterte, il Trump in salsa asiatica, neo eletto presidente delle Filippine. Perchè questa fama e somiglianza? Perchè tutto questo allarmismo?
Conosciuto in patria col soprannome “The Punisher”, ovvero “Il Castigatore”, quando è stato sindaco di Davao ha sradicato e annientato la criminalità organizzata tramite il lavoro degli squadroni della morte con metodi decisamente poco ortodossi e duri. I risultati sono stati sorprendenti rendendo la città una delle metropoli più sicure al mondo, nonostante un passato da anarchia totale. I frutti sono arrivati ben presto anche in ambito politico, grazie all’appoggio della dirigenza del suo partito in sostituzione del precedente candidato ritiratosi. Considerato un outsider della politica di Manila, date le umili origini, conquista fin da subito la plebe grazie ai suoi toni lontani dal politicamente corretto da cosiddetto “uomo del fare” e alle sue proposte rivoluzionarie anti-élite (notoriamente filo-USA).
Ha inoltre disprezzato l’operato del precedente esecutivo Aquino, l’imperialismo della capitale (con la proposta shock di una costituzione su modello federale) e la candidata avversaria, cittadina americana, Grace Poe. La somiglianza col tycoon la si nota anche nelle politiche decise di sicurezza civile, data la proposta di attuare il suo modello Davao (analogia con Rudolph Giuliani?) su scala nazionale, con l’aggiunta della pena capitale per i terroristi. Questo è un segnale per i gruppi che minacciano la sicurezza nazionale da anni. Ovviamente non è un perfetto copia-incolla di The Donald, essendo infatti Duterte un socialista, ma il modello di rottura e populista c’è tutto. Gli investitori internazionali lo supportano comunque, grazie alla sua politica dura e alla promessa di farli arrivare ad avere una quota del 40% in alcuni settori economici, un’occasione ghiotta per un Paese che marcia con una crescita pari a quella cinese.
Come detto, in ambito interno il modello Duterte affascina e fa sperare, ma in ottica estera fa tremare gli interessi occidentali nell’area geografica. Perchè? Per motivi differenti.:
- Appena prestato giuramento al Paese, ha dichiarato che avrà una politica estera indipendente da quella americana, al contrario di quella promossa da Aquino, perché a sua detta governerà seguendo solo ed esclusivamente gli interessi nazionali. Non contento delle già rivoluzionarie ed insolite parole ha anche offeso pesantemente l’ambasciatore americano nel Paese, Philip Goldberg, dandogli del gay e accusandolo di intromettersi negli affari nazionali.
- In seguito è passato all’offensiva contro l’asse anglofono, USA-UK, reo di aver finanziato gli jihadisti in Medio Oriente per rovesciare dittature a loro ostili in paesi pacifici e sostanzialmente benestanti, alzando conseguentemente il polverone dello jihadismo mondiale che incombe anche nelle Filippine, con lo storico Fronte Nazionale Moro che da tempo governa in diverse isole nel sud del paese lottando per la secessione e la nascita di un califfato islamico. Serviranno sicuramente per cercare di placare le acque fin troppo turbolenti, Moro e comunisti clandestini da anni tormentano la sicurezza nazionale, ma queste dichiarazioni sono moniti che l’aria nel pacifico e nelle Filippine è destinata a cambiare radicalmente. Ma questo non è tutto perché Duterte sa come poter risolvere la delicata questione della sovranità sulle isole Spratly e Paracels.
Occorre spiegare che la Cina affronta la disputa su questi piccoli arcipelaghi, strategici per giacimenti off-shore di idrocarburi e per imponenti banchi ittici, usando la “dottrina Monroe” che li pone come una questione di integrità nazionale su cui il governo centrale non può arrivare a compromessi con altri. Per spiegarci la stessa strategia utilizzata per il Tibet e il Kashmir. Cosa vuole fare allora Duterte?
Innanzitutto rigetta il Tribunale Internazionale, che addirittura non vuole interpellare per risolvere questo contenzioso territoriale. Vuole istituire perciò una commissione composta da stati che rivendicano la sovranità su questo arcipelago con aggiunti Giappone, Australia, USA (appartenenti allo stesso asse e fino ad oggi vicini a Manila, soprattutto militarmente) e invita la Cina ad usufruire della zona economica esclusiva di norma spettante agli stati costieri, proponendole perfino delle joint venture per gli idrocarburi. Quindi mette nel cassetto la rivendicazione fatta da Aquino tramite il Tribunale per cercare un’inedita soluzione condivisa con gli storici nemici cinesi. Ciò non è da sottovalutare perché la lotta muscolare tra Pechino e Washington passa per il Mar Cinese Meridionale, e le Filippine sono decisive per il contenimento dell’ascesa militare cinese e per il rafforzamento del pivot americano nel Pacifico. E tutto è nelle mani dello sceriffo di Davao.
Lorenzo Trufolo
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