“Rischi di instabilità nel breve periodo per l’eurozona, per il Regno Unito il rischio è l’irrilevanza. A rischio anche la relazione privilegiata con gli USA”
Quanto influirebbe negli attuali equilibri politici dell’Unione Europea l’”ipotesi Brexit”? Nonostante Londra non sia un membro dell’eurozona, l’ipotesi di un distacco di un big dall’Unione Europea riporterebbe di fatto l’incubo dell’”effetto domino”, manifestatosi al tempo della Grexit e della crisi del debito sovrano europeo. Secondo l’economista Marcello Messori, professore di Economia al dipartimento di Scienze Politiche della Luiss e direttore della Luiss School of European Political Economy, una eventuale Brexit va analizzata negli effetti economici e politici di breve e di lungo periodo.
Professor Messori, ipotizziamo che gli inglesi votino per l’addio all’Europa. La principale conseguenza per il Regno Unito?
«Nel breve periodo si aprirebbe uno scenario davvero pericoloso per l’economia inglese. È abbastanza probabile che il Regno Unito non riesca più a sostenere il modello della sua crescita economica, che si basa sullo squilibrio delle partite correnti. Nell’interscambio di beni e servizi, ciò che importa eccede ciò che esporta. Oggi è in grado di assorbire tale squilibrio grazie all’enorme afflusso di capitali che arriva alla City. I flussi finanziari, di fatto, compensano i saldi negativi delle partite correnti. Arriva dall’Unione Europea circa il 48-50% del totale dei flussi, con l’exit assisteremmo ad una drastica diminuzione e dubito che Londra nel breve periodo riesca ad aggiustare questo squilibrio».
Per l’eurozona nel brevissimo periodo quali potrebbero essere gli effetti?
«Mutati il peso politico e finanziario degli attori, lo squilibrio delle partite correnti si è già verificato nelle crisi di Spagna, Grecia e Portogallo. Si rischia anche per gli inglesi il cosiddetto “sudden stop” (arresto improvviso): i capitali iniziano effettivamente a defluire dal paese e si innesca la crisi. Si tentano politiche monetarie dagli effetti imprevedibili, politiche fiscali restrittive, si entra in recessione, cade l’occupazione. Finora abbiamo visto gli effetti in paesi periferici, in Gran Bretagna…».
La storia dell’integrazione europea potrebbe arrestarsi non più per questioni politiche ma per un black-out dei mercati finanziari?
«Lo shock sarebbe devastante per i mercati finanziari. La prima conseguenza potrebbe essere una forte svalutazione della sterlina, anche nell’ordine del 6%, oltre a quanto già perso in questi giorni. Nell’area euro aumenterebbe l’instabilità finanziaria, innestandosi nell’attuale fase di bassa crescita. Nel medio-lungo periodo, alcune ricerche condotte nel Regno Unito segnalano invece che l’Unione Europea, paradossalmente, potrebbe trarre beneficio dall’exit britannico: le principali piazze europee potrebbero infatti “internalizzare” in parte le attività finanziarie oggi svolte nella City».
Se il Regno Unito uscisse dall’Unione Europea quali sarebbero invece le conseguenze politiche in relazione ai rapporti con i Paesi fondatori?
«I Trattati prevedono una “via d’uscita” di circa due anni per uscire tecnicamente dall’Unione. Verrebbero annullati tutti gli accordi e si dovrebbe procedere ad un lungo braccio di ferro per rinegoziarli. Il Regno Unito appartiene al mercato interno e di fatto si ricontratterebbero tutte le condizioni tariffarie e di scambio commerciale. Dal punto di vista geopolitico per gli inglesi si aprirebbero questioni gigantesche: attualmente il Regno Unito beneficia di accordi commerciali che l’Unione ha in essere con tutte le grandi potenze globali, dagli Usa, alla Cina, al Giappone. Dovrebbe ricontrattare tutto e non è detto che ottenga le stesse condizioni. Ma non sono solo accordi che “prezzano” i vantaggi economici, scontano anche accordi politici e geopolitici sottostanti. Dal punto di vista interno, l’uscita potrebbe rinfocolare nuovamente le pulsioni autonomiste nel Regno Unito: la Scozia potrebbe diventare un problema enorme».
La politica estera inglese, in parallelo a quella economica, come potrebbe ridefinirsi?
«Nel nostro immaginario europeo tendiamo a considerare il Regno Unito come il tramite tra Washington e l’Europa, grazie allo storico rapporto privilegiato lungo l’Atlantico. I tempi sono però cambiati: Barack Obama ha dichiarato, senza mezzi termini, che gli Usa non vedono di buon occhio l’ipotesi Brexit. È una scelta di campo inequivocabile, la partnership privilegiata Usa-Ue non verrebbe assolutamente compromessa da un ipotetico nuovo asse Londra-Washington. Pensiamo alla portata di un accordo commerciale come il Ttip. La competizione economica del XXI secolo avviene tra grandi aree commerciali: non c’è spazio fuori dai blocchi statunitensi, europei, cino-indiani e giapponesi. Chi rimane fuori da questi schemi non avrà alcun rilievo. L’uscita dall’Ue per Londra si tradurrebbe in una perdita di potere quasi immediata in tutti gli organismi internazionali».
Quali sono le forze politiche e finanziarie, ma anche culturali, in campo nella scelta referendaria inglese?
«Gran parte dell’establishment politico e la City spingono a favore della permanenza. Sono per il “remain” gli attori istituzionali che hanno una visione sistematica dei vantaggi economici e delle conseguenze politiche internazionali. Finora va ribadito che il Regno Unito ha beneficiato di tutte le condizioni commerciali comunitarie in un “regime speciale”, quello appunto dell’”opting out”. Le faccio un esempio: la Norvegia, che non è membro dell’Unione Europea, per mantenere un accordo economico-commerciale con l’Europa paga annualmente più di quello che Londra destina al bilancio europeo. Le forze dell’exit invece si inquadrano in un variegato “voto ideologico” che si può sintetizzare nel rifiuto di rimanere in un’Europa delle troppe regole».
Bruxelles e la Bce temono qualcosa nello specifico?
«La Bce teme l’instabilità nel breve termine. Mario Draghi si è già detto pronto ad intervenire con ulteriori immissioni di liquidità per arginare eventuali shock. Come detto, circolano scenari di ogni genere, quello positivo per l’Ue lo abbiamo sopra descritto. Le cancellerie europee temono tuttavia l’innescarsi di un esiziale “effetto domino”, scansato per poco nei mesi della crisi greca»
Il progressivo distacco, anche diplomatico, di Londra dall’Unione potrebbe avere ripercussioni anche nelle grandi partite economiche che stanno dietro alla geopolitica mediorientale?
«I singoli membri dell’Unione risentono della loro storia passata: in molte aree del mondo agiscono solo in base a strategie diplomatiche unilaterali. D’altronde ad oggi vi è solo un embrione di Pesc. Il passato pesa soprattutto in aree un tempo soggette a dominazioni coloniali. A maggior ragione per il Regno Unito, con la sua gloriosa storia del Commonwealth e forte di rapporti privilegiati con molti Paesi ed elité politiche».
C’è qualche segnale da leggere con attenzione nei movimenti dei mercati finanziari internazionali?
«I mercati non amano ciò che produce instabilità. Sono già in fibrillazione per le politiche monetarie della Federal Reserve, o per i dati poco brillanti del commercio internazionale nel 2015 e ovviamente per l’incognita dell’economia che lavora a tassi negativi. L’exit del Regno Unito avrebbe l’effetto di un bidone di benzina lanciato dove c’è un principio d’incendio».
Luigi Marcadella
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