Andrea Marcigliano
Fonte: www.intelligonews.it di mercoledì 04 settembre 2013
Martedì Bibi Netanyahu ha mostrato i denti. Una “esercitazione” con il lancio di un paio di missili nel Mediterraneo – ove incrociano le navi da guerra degli USA e della Russia – tanto per dire a tutti, amici e nemici, “non pestateci i piedi”.
Un segnale decisamente chiaro nell’imminenza di un’azione militare statunitense contro le basi militari di Damasco, azione che, notoriamente, preoccupa non poco Gerusalemme, e non solo perché Assad minaccia ritorsioni contro Israele. Anzi forse questa è la preoccupazione minore, visto che le forze armate israeliane godono di una tale superiorità nell’area – soprattutto a livello aviazione – da essere perfettamente in grado di neutralizzare in pochissimo tempo eventuali attacchi mossi contro il suo territorio dalle forze fedeli al regime di Damasco, ormai stremate da due anni di guerra civile. Piuttosto a preoccupare Israele sono i rischi impliciti nel dopo Assad, se, come molti pensano, l’intervento di Washington dovesse far pendere la bilancia del conflitto siriano a favore dei “ribelli”. Ribelli che, pur essendo tutt’altro che un fronte compatto, a livello politico rischiano di venire egemonizzati dai gruppi estremisti di ispirazione jihadista, in particolare quelli legati alla galassia salafita, che gode dell’appoggio e dei sontuosi finanziamenti dell’Arabia Saudita e delle altre petro-monarchie sunnite del Golfo.
Ed è proprio Riyadh a premere più di tutti per l’intervento diretto degli Usa. Una pressione che si sta facendo evidentemente insostenibile per Barack Obama, costretto a prendere, ancorché con molte incertezze, la strada dell’intervento. Infatti non va dimenticato che i Banu Saud e gli altri Emiri della Penisola Arabica controllano, attraverso i loro ricchissimi Fondi Sovrani, delle quote rilevanti del debito pubblico statunitense, oltre ad essere presenti come azionisti in molti grandi gruppi industriali statunitensi. Una posizione dalla quale possono, appunto, esercitare forti pressioni tanto sul Congresso che sulla stessa Casa Bianca. Questo spiega, almeno in parte, anche il consenso che l’intervento militare sta trovando fra senatori deputati tanto Repubblicani che Democratici, con l’esclusione di poche frange marginali: evidentemente i sauditi e l’Emiro del Qatar hanno fatto un eccellente lavoro di lobbing.
Così Barack Obama – che nei suoi ultimi interventi pubblici è apparso insolitamente teso e finanche pallido – sembra costretto ad andare alla guerra, ancorché mascherata da “intervento umanitario” rispolverando l’ormai frusta retorica degli anni di Clinton e della questione Bosnia/Kosovo. E rischia di doverlo fare in una situazione di sostanziale isolamento politico internazionale.
Infatti, con Italia, Germania e Spagna che si sono chiamate fuori sin dall’inizio, e la defezione clamorosa dei “cugini” britannici dopo la sconfitta di David Cameron – astro ormai declinante – ai Comuni, Obama si trova a poter contare su una coalizione quanto mai fragile politicamente e per certi versi anche inquietante. Certo, c’è sempre la Francia di Hollande, che rivendica antichi diritti coloniali sulla Siria; e, per ora, resta l’Australia. Ma per il resto Washington può contare solo sulle petro-monarchie e sulla Turchia. Ed Ankara, che in questo contesto non potrebbe non rappresentare il principale alleato strategico, è pronta ad intervenire in Siria non tanto per chiudere la “pratica Assad”, quanto per contrastare, nella fase successiva, le mire degli estremisti salafiti dietro ai quali si muovono Arabia Saudita e Qatar.
Perché il conflitto siriano è un esempio lampante di “guerra asimmetrica” e anche di “guerra ibrida”. Una guerra civile, innanzi tutto, che contiene però una pluralità di conflitti etnici, tribali, religiosi: i sunniti contro gli alauiti, i curdi contro gli arabi, le diverse tribù in perenne tensione fra loro, i “ribelli moderati” appoggiati da Ankara contro gli estremisti salafiti sponsorizzati da Riyadh… Poi vi è il contesto mediorientale: lo scontro fra Sunniti e Sciiti, la nuova “Fitna” capeggiata da un lato dai Sauditi, dall’altro da Teheran. E vi è il conflitto, cui accennavamo, fra Turchia ed Arabia per il primato nel mondo sunnita… e vi è Israele, ovviamente, e il Libano dove antichi fuochi mai spenti possono riaccendersi da un momento all’altro. E poi la collera di Mosca, le cui navi da guerra, significativamente, incrociano nelle stesse acque della flotta statunitense…
Un groviglio di vipere che sconsiglierebbe a Barack Obama, sempre più moderna versione del buon vecchio Re Tentenna, di andarvi a cacciare le mani… anche perché l’interesse degli States, come quello di Israele, non è forse che questa guerra civile siriana abbia una conclusione rapida e con un chiaro vincitore. Piuttosto in molti, a Washington come a Gerusalemme, ritengono che sarebbe preferibile una Siria destabilizzata a lungo da un conflitto intestino a “bassa intensità”. Ma questi sono pensieri cattivi cui il buon Obama, ovviamente, non può dare apertamente voce…