Tora Tora Tora, il film sull’attacco giapponese a Pearl Harbor uscito nel 1970 ebbe un grande successo di pubblico, un Oscar e diverse nomination come si usa dire oggi. Addirittura l’acronimo che deriva da totsugeki raigeki (letteralmente, attacco lampo), recita Wikipedia, ebbe una certa fortuna politica nel lessico dell’Italia della 1ª Repubblica a significare una sorta di grido di guerra.
Ad ottant’anni da quel 7 dicembre 1941 la storiografia continua ad interrogarsi, peraltro timidamente, se fu vera pugnalata proditoria oppure di fatto la causa accidentale e non si sa quanto a sorpresa, dell’entrata in guerra ormai inevitabile del gigante assopito, come nel finale della pellicola l’Ammiraglio Yamamoto chiama gli Stati Uniti d’America.
Woody allen nel suo meraviglioso Radio Days ci regala un affresco che vale più di mille indagini su come l’opinione pubblica americana reagisce a Pearl Harbor, la straordinaria capacità mediatica del sistema, pubblicità musica fiction, irraggiungibile già allora del più potente complesso economico-industriale mondiale. Era l’altra faccia della guerra civile europea 1914-1945 protrattasi poi con la cosiddetta guerra fredda USA-URSS. In palio quella supremazia nell’Indo-Pacifico che oggi vede contrapposti Cina ed il nuovo patto militare della sfera anglosassone, l’AUKUS, Australia, UK ed USA, con il Giappone e l’India partner discreti e prudenti.
Certo il trio Puccini-Giacosa-Illica aveva già preconizzato nella Madama Butterfly con il suicidio di Cho Cho-san, che Yukio Mishima eleverà a sacrificio rituale proprio pochi giorni dopo l’uscita del film in Italia, tra gli sceneggiatori Akira Kurosawa, la resa senza condizioni di quel sentimento dell’onore nipponico, con punte di fanatico disprezzo della sacralità della vita per noi che non possiamo non dirci cattolici, di fronte al cinismo buonista di Pinkerton.
Noi che amiamo Puccini e le sue opere che rappresentano come nessuno mai è riuscito meglio, lo scontro tra il vecchio ed il nuovo, come nel Gianni Schicchi capolavoro della Firenze di Giovacchino Forzano, confessiamo di preferire alla lotta usque ad mortem l’Archiloco dello scudo perduto:
…però mi sono salvato. / Chi se ne importa di / quello scudo? / Al diavolo! Presto ne / comprerò uno non / peggiore.
Il Giappone che ci ha conquistato il cuore e la mente è quello de L’Arpa birmana di Ichikawa, ancora di più quello struggente di Viaggio a Tokyo dell’immenso Ozu, che racconta la fine del mondo tradizionale e della famiglia sotto i colpi impietosi della modernità occidentale, impastata di benessere materiale quanto di egoismo e solitudine. La lezione, se vogliamo, del nostro neorealismo.
Eppure non c’è dubbio che proviamo fascino per questo Paese, forse perché così diverso da noi, senza contare il senso di colpa per l’olocausto atomico a cui seguì, sigillo finale della tragedia, la discesa in guerra dell’URSS a ridosso di Hiroshima e Nagasaki, ma forse Stalin pensava più a Truman che alle Curili. Quel Giappone che non era entrato in guerra contro l’Orso sovietico e a cui il Duce, ormai prigioniero dell’assoluto hitleriano, voleva affidarsi per mediare una pace separata con l’Armata Rossa.
Piero Buscaroli, musicologo insigne e storico acuto, se l’è sempre rifatta con il suo conterraneo Dino Grandi ed il 25 luglio del 43, ma la verità è questa volta quella banale dei media mainstream. Tora Tora Tora non fu un grido di vittoria ma l’inizio della fine.
La Redazione
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