Un conflitto a bassa intensità, come dicono i manuali di strategia militare. Un conflitto che si trascinava ormai da quasi tre decenni. Sotto traccia. Ignorato dai media, anche se continuava a mietere vittime e rallentare lo sviluppo di una regione critica per gli equilibri, geopolitici ed economici, mondiali. Un conflitto che ora sembra d’improvviso riaccendersi. E raggiungere il calor bianco. La guerra tra Azerbaigian ed Armenia, che in queste ore sta riesplodendo in tutta la sua, devastante, virulenza, sembra quasi aver colto di sorpresa la diplomazia internazionale. E, soprattutto, i grandi Media di comunicazione, che ora alzano alti lai e invocano interventi di mediazione e l’imposizione di una tregua. Eppure, quella esplosa il 27 settembre scorso è una guerra da tempo annunciata. E facilmente prevedibile. È da luglio che si registrano tensioni e scontri episodici al confine del Nagorno Karabakh, la provincia dell’Azerbaigian autoproclamatasi indipendente all’inizio degli anni ’90 con l’appoggio delle truppe di Yerevan, intervenute a sostegno della minoranza armena. Un conflitto che, tra il ’92 e il ’94, ha portato all’occupazione da parte delle forze armene non solo del conteso Nagorno Karabakh, ma anche di sette distretti adiacenti. Con la conseguenza tragica dell’esilio di oltre un milione e mezzo di profughi azeri, e del sostanziale spopolamento dell’intera regione. Avvenimento definito da Baku come “pulizia etnica”. L’Azerbaigian non ha mai rinunciato all’idea di riconquistare la sua integrità territoriale, gravemente compromessa con la perdita di quasi un quinto del suo territorio. Ed ha sollevato la questione in tutte le sedi internazionali. Ma il gioco di veti incrociati ha paralizzato il Gruppo di Minsk deputato a trovare una soluzione pacifica e condivisa della tormentata questione. Da Luglio, poi, Baku ha denunciato continue violazioni della tregua da parte armena. Violazioni che hanno portato, ora, ad un aperto conflitto. Con accuse reciproche tra Armenia e Azerbaigian di aver dato inizio a quella che si configura sempre più come una guerra su scala regionale. Immediato l’intervento di Mosca, grande protettore dell’Armenia. Anche se, negli ultimi tempi, era stato chiaramente percepibile un netto miglioramento dei rapporti fra Russia ed Azerbaigian. Comunque il Cremlino ha subito chiesto un cessate il fuoco e la messa in opera di una mediazione internazionale. Ankara, dal canto suo, si è immediatamente schierata a sostegno dell’Azerbaigian di fronte a quella che definisce l’aggressione armena. Un conflitto di queste proporzioni nel Caucaso rappresenta una grave minaccia per gli equilibri internazionali, anche perché rischia seriamente di dilatarsi coinvolgendo tutte le grandi potenze e i paesi limitrofi. È anche una pericolosa minaccia per gli interessi dell’Italia, partner commerciale importante di Baku. È infatti proprio dell’Azerbaigian che importiamo notevoli quantitativi di gas e petrolio. E le nostre grandi imprese hanno molto investito, in questi decenni, nel territorio azero. Roma non può ignorare quanto sta avvenendo nel Caucaso. Al contrario dovrebbe farsi promotrice di un’azione diplomatica volta a risolvere la questione. Cercando una mediazione anche in forza dei consolidati, buoni rapporti sia con Mosca che con Ankara. Appare infatti evidente che la pacificazione dell’area debba necessariamente passare dal ritiro delle truppe di Yerevan dai territori occupati dell’Azerbaigian. E quindi da una trattativa che da un lato garantisca la sicurezza della locale minoranza armena, e dall’altro permetta a Baku di ricostituire la sua integrità nazionale. Operazione certo non facile. Ma unica alternativa ad un conflitto che potrebbe avere effetti devastanti. E ben oltre i confini del Caucaso.
Andrea Marcigliano
Senior fellow think tank “ll Nodo di Gordio”
© RIPRODUZIONE RISERVATA