I Balcani stanno per esplodere. Nel silenzio, come si suol dire, assordante dei Media, la situazione al confine fra Turchia e Grecia diventa ogni giorno più minacciosa. Erdogan si è stancato di aspettare. Stancato di attendere che la Ue – che ha sempre sbarrato ad Ankara le porte del suo salotto – mantenesse almeno gli impegni per quello che riguarda gli aiuti finanziari per gestire l’emergenza profughi. Che, in linguaggio non diplomatico, significa pagare i turchi perché sbarrino la strada alla marea montante, oltre 4 milioni, di migranti che altrimenti ti riverserebbero lungo la dorsale balcanica sino ad invadere l’Europa centrale. La Ue, ovvero Angela Merkel, aveva promesso. Ma non ha mantenuto, se non in parte. Ed il Sultano non è certo famoso per la sua pazienza. O moderazione.
A questo si deve aggiungere la complessità della situazione interna in Turchia. L’ AKP, ormai One Man Party totalmente controllato da Erdoğan, ha perduto pezzi importanti, da Gul a Davudoğlu. E, soprattutto, si è giocato l’appoggio di quei ceti imprenditoriali che lo appoggiavano non perché partito islamico, ma in quanto garante di sviluppo e crescita. Che si sono, però, ormai fermati.
Il conflitto siriano, per altro sta vedendo un sempre maggiore coinvolgimento delle forze turche, e questo nonostante Ankara avesse in questi ultimi tempi aperto un canale privilegiato di dialogo con Mosca, per cercare di rompere l’isolamento in cui si è venuta gradualmente a trovare in ambito NATO. NATO di cui la Turchia fa ancora formalmente parte. Ma è evidente che i legami con Washington si sono gravemente incrinati, e che l’amministrazione Trump privilegia i rapporti con i Sauditi.
La mossa di Erdogan di spalancare le gabbie e dar il via libera alle masse di migranti mettendo in crisi Atene, già fortemente provata dalla crisi economica. E sulla quale sta venendo a gravare il peso della fallimentare politica europea nei confronti della Turchia. Ed è ormai palese che l’esercito greco e quello turco sono a meno di un passo dal conflitto diretto. Già molte le avvisaglie. Già molti gli “incidenti” di confine.
Lo scontro diretto tra i due paesi, entrambi membri dell’Alleanza Atlantica, potrebbe scatenare un effetto a catena in tutti i Balcani meridionali. Coinvolgendo i paesi a nord della Penisola Ellenica, che temono di venire travolti dal passaggio dell’onda migratoria. In particolare, poi, questa destabilizzazione potrebbe riaccendere i conflitti interetnici latenti. Soprattutto darebbe nuova linfa all’irredentismo delle minoranze albanesi disperse nella regione, tra Montenegro, Grecia e soprattutto Macedonia. Dove costituiscono circa il 50% della popolazione. Dando nuove ali al sogno della Grande Albania. Prefigurarsi nuove situazioni tipo Kosovo è un incubo. Ma un incubo incombente.
E poi ci sono le, disperse, minoranze turcofone, dai Gagauzi di Moldavia ai turchi del Danubio. Minoranze per lo più emarginate. In condizioni economiche precarie. E che potrebbero fornire la giustificazione per il coinvolgimento più profondo di Ankara in quei Balcani che i turchi continuano a considerare non solo area di interesse strategico, ma anche parte integrante della loro orbita culturale e storica.
Facile immaginare la reazione anche di Mosca, da sempre postasi come Grande Fratello dei paesi ortodossi. Una polveriera dunque. Che i molti, ancora piccoli focolai di incendi potrebbero a breve fare esplodere.
E la storia passata ci insegna che ogni incendio nei Balcani si propaga rapidamente in Europa. E finisce per travolgere l’intero globo.
Andrea Marcigliano
Senior fellow think tank “Il Nodo di Gordio”
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