Il continuo calo del prezzo del petrolio non ha portato benefici rilevanti agli automobilisti italiani ma, in compenso, sta modificando sensibilmente gli scenari economici mondiali. I Paesi produttori vedono ridursi drammaticamente gli introiti legati alla vendita del petrolio mentre gli investimenti tecnologici nel settore vengono procrastinati in attesa che il prezzo risalga. Sul fronte opposto i Paesi che acquistano petrolio vedono calare la spesa per le materie prime e riducono i costi per le produzioni. Ma vedono anche contrarsi le esportazioni di manufatti verso i Paesi produttori di petrolio. Un equilibrio sempre più precario. Per questo, “Il Nodo di Gordio” ha chiesto a Matteo Verda*, ricercatore associato dell’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale di Milano), un’analisi sulle prospettive del comparto. Per capire sino a quando questo equilibrio reggerà e cosa dovremo attenderci per un futuro immediato.
Il prezzo del petrolio ha sforato oggi a ribasso i 40 dollari al barile. Ritiene si tratti di un prezzo soglia o, per le informazioni a Sua disposizione, è ipotizzabile un ulteriore calo?
Un ulteriore calo è senza dubbio possibile. All’orizzonte ci sono grosse preoccupazioni circa il tasso di crescita della domanda petrolifera dei Paesi emergenti. E con l’offerta che continua a crescere, meno domanda del previsto vorrebbe dire prezzi ancora in discesa. Gli operatori, finanziari e non, si stanno muovendo nelle ultime settimane sulla base di aspettative di questo genere.
L’Arabia Saudita si è già ritrovata con problemi di liquidità. Quanto può andare avanti con prezzi del petrolio così bassi senza ripercussioni sulla propria economia?
L’Arabia Saudita sta ricorrendo al mercato debito, è vero. Ma controlla enormi riserve di liquidità, oltre che di greggio. Per quanto l’impatto negativo sull’economia sia inevitabile, per il Paese non ci sono al momento rischi specifici di instabilità politica dovuta al taglio delle spesa pubblica. Le finanze saudite sono in grado di andare avanti ancora per parecchi trimestri senza grossi elementi di rischio, anche considerando che le contromisure in termini di ristrutturazione della spesa pubblica sono già in atto. Non tutte le spese, infatti, sono indispensabili per mantenere il consenso e la stabilità politica. In altri termini, le nuove infrastrutture o l’aumento della spesa militare possono essere posticipati senza particolari problemi, a differenza delle erogazioni dello stato sociale.
La ricomparsa sulla scena dell’Iran può penalizzare ulteriormente il prezzo del petrolio o, a Suo avviso, il mercato sta già scontando questo nuovo player?
L’arrivo della produzione iraniana sul mercato è una questione dell’anno prossimo e gli operatori hanno molto chiaro questo aspetto. La discesa dei prezzi di queste settimane ha altre origini, soprattutto nella debolezza della domanda.
L’Algeria pare intenzionata ad aumentare le estrazioni. È un rischio ulteriore?
No, anche un eventuale aumento della produzione algerina non è destinato a cambiare gli equilibri, data la ridotta entità dell’eventuale nuova produzione subito disponibile.
L’economia cinese rallenta. Il basso costo del petrolio può essere un aiuto per i costi di produzione nel breve periodo?
Una bolletta petrolifera più bassa è un elemento positivo per ogni importatore, Cina inclusa. Tuttavia, il rallentamento strutturale dell’economia cinese non ha nulla a che vedere col costo dell’energia e dunque il minor costo del greggio può dare un beneficio marginale, ma certamente non in grado di cambiare la dinamica più generale.
Il vero problema potrebbe sorgere dalle difficoltà in capo ai Paesi emergenti. Gli Emerging Market produttori di petrolio come Venezuela e Russia stanno subendo un grave danno dai bassi prezzi del petrolio. I Paesi consumatori, tuttavia, sono alle prese con una crisi economica non indifferente… Che ne pensa?
Il mercato petrolifero vive continuamente cicli di crescita e calo dei prezzi piuttosto marcati. Purtroppo, spesso li si analizza con una memoria corta e si individuano vincitori e vinti come se fosse un verdetto finale. Ora i vincitori sembrano essere gli importatori, che pagano di meno per le stesse materie prime, ma fino a poco più di un anno fa le parti erano invertite. A prescindere dalla congiuntura, però, gli attori sono sempre gli stessi e in ultima analisi condividono un interesse di fondo alla stabilità dei flussi energetici. Penso che la destabilizzazione politica di uno o più Paesi produttori sarebbe un problema per tutti.
Questi prezzi del petrolio, mettono una pietra tombale sul comparto delle fonti energetiche alternative e delle estrazioni di shale-oil?
Assolutamente no, per ragioni diverse. Le rinnovabili sono importanti soprattutto per la generazione elettrica, settore nel quale il petrolio è marginale fin quasi all’irrilevanza. Inoltre, la spinta dei Paesi industrializzati alla decarbonizzazione delle economie – e del settore elettrico in particolare – sono fenomeni che possiamo definire come irreversibili. Peraltro, le rinnovabili in alcuni mercati sono sempre più competitive anche dal punto di vista puramente economico e credo che la tendenza continuerà. Certo, i bassi prezzi del petrolio possono influire anche sulle altre fonti e rallentare il processo, soprattutto nei Paesi emergenti, ma la direzione presa dai sistemi energetici dei Paesi industrializzati è molto chiara. Per quanto riguarda lo shale oil, anche se i prezzi bassi stanno mettendo in difficoltà molti produttori e faranno ridurre la produzione nei prossimi trimestri, questo non significa la fine. Tra l’altro, i costi di produzione nei diversi campi sono piuttosto eterogenei e negli ultimi dodici mesi la capacità di alcuni produttori di ridurre i costi nelle aree geologicamente più favorevoli ha colpito gli analisti. In altre parole, anche con prezzi in ulteriore discesa, non tutti andranno in bancarotta.
Oltretutto, le riserve restano nel terreno e quando i prezzi inevitabilmente saliranno di nuovo, anche lo shale oil dei campi più costosi da coltivare tornerà competitivo e potrà essere riportato velocemente sul mercato. Questo anche grazie alla curva di sviluppo delle operazioni di coltivazione dello shale oil, che sono molto più rapide rispetto ai giacimenti convenzionali e consentono di iniziare la produzione nel giro di qualche trimestre, quando le aspettative degli investitori sono positive e arrivano i capitali per le operazioni.
* Matteo Verda è ricercatore associato dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Milano), dove lavora presso l’Osservatorio Energia. Dottore di ricerca in Scienza politica dell’Università di Pavia, le sue attività di ricerca e didattiche riguardano la sicurezza energetica, i mercati energetici internazionali e le dinamiche politiche nei Paesi esportatori di materie prime. Tra le sue pubblicazioni Una politica a tutto gas. Sicurezza energetica europea e relazioni internazionali (Università Bocconi Editore, 2011), Azerbaigian, energia per l’Europa. Storia, economia e geopolitica degli idrocarburi del Caspio (Egea, 2013), Energia e geopolitica: gli attori e le tendenze del prossimo decennio (ISPI, 2014). Dal 2010, è co-autore del Focus trimestrale sulla sicurezza energetica per l’Osservatorio di politica internazionale (Senato, Camera e MAE).
Il suo blog è www.sicurezzaenergetica.it
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