Molti anni fa, nonostante ne possedessi i titoli, mi trovai coartato a seguire uno di quegli pseudo-corsi formativi di mediazione culturale organizzati dalla Provincia Autonoma di Trento. Uno di quelli – tanto per intendersi – finalizzati a sistemare gli “amici” della casta che presiedevano le lezioni. Dall’altra parte, al mio fianco fra i banchi dei partecipanti c’era anche una mediatrice ucraina con la quale, una volta, ebbi una sorta di diverbio. Dovevamo elencare dei Paesi in ordine di preferenza quindi confrontarci fra chi amava e chi aborriva lo stesso Paese. Così ci trovammo a discutere di Polonia, Paese da lei prediletto. La cosa che mi colpì fu che, sebbene l’Ucraina, sulla scorta delle letture dello slavista Francis Conte, ai miei occhi rappresentasse la terra di quei Rus’-Variaghi, dove avvenne la metamorfosi linguistico-letteraria che gettò le fondamenta della prima entità statuale “russa”. Un gruppo plurietnico che a Kiev, nel X secolo, amalgamò principi scandinavi, elementi ugro-finnici ed altaici con la massa slava. La signorina ucraina in questione mi obiettò che lei invece, per cultura e tradizione, si sentiva maggiormente affine ai polacchi.
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