La Sala Stampa vaticana, a fine settimana scorsa, ha annunciato che il Pontefice compirà, nei prossimi mesi, due viaggi nella regione caucasica: a fine Giugno in Armenia, a fine Settembre in Azerbaigian e Georgia. Date diverse e distanti, paesi confinanti. Una scelta che potrebbe apparire poco razionale, se non si tenesse presente la tensione al calor bianco che corre fra questi paesi, dove tra Baku e Yerevan è di fatto in corso, da oltre vent’anni, un conflitto “a bassa intensità”, ovvero una guerra strisciante dietro il paravento di una difficile, ancorché lunga tregua. Motivo del contendere la, povera e strategicamente ininfluente, provincia del Nagorno-Karabach; una enclave a maggioranza armena incistata in territorio azero che, all’implosione dell’URSS, all’inizio degli anni ’90, si è proclamata indipendente dalla neonata Repubblica dell’Azerbaigian.
Di qui un conflitto, rapido ma estremamente sanguinoso, che ha visto la nuova Repubblica di Armenia scendere in campo al fianco dei “fratelli” del Nagorno-Karabach ed occupare, con l’aiuto neppure tanto velato di Mosca, non solo quella, ma anche altre sette province limitrofe a maggioranza azera. Con il risultato che Baku si è trovata spogliata di quasi il 30% del suo territorio nazionale, e che oltre un milione e mezzo di azeri sono stati costretti a fuggire da quei territori abbandonando le loro case.
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Leggi l’articolo completo di Andrea Macigliano de Il Nodo di Gordio -> I rischi di un incendio caucasico e la diplomazia di Francesco