Il 13 luglio scorso il presidente italiano, Sergio Mattarella, e quello sloveno, Borut Pahor, si sono presi per mano davanti alla foiba di Basovizza, e poi hanno fatto lo stesso davanti al cippo che a poco distanza ricorda quattro giovani antifascisti slavi fucilati il 6 settembre del 1930. Questo istante è stato paragonato al 7 dicembre del 1970, quando il cancelliere tedesco Willy Brandt si inginocchiò davanti al monumento alla rivolta del Ghetto di Versavia, o al 13 aprile 1986 quando Giovanni Paolo II si recò in visita alla sinagoga di Roma.
L’uomo che ha lavorato perché quest’istante ci fosse è Tomaž Kunstelj, ambasciatore sloveno a Roma. Il Foglio lo ha incontrato in occasione della sua partecipazione al 17esimo workshop della rivista Il Nodo di Gordio, tenutosi a Montagnaga di Pinè e Levico Terme (Tn) dal 24 al 26 luglio. È vero che la preparazione dell’incontro tra Mattarella e Pahor ha richiesto un anno di lavoro?
«In realtà anche di più. È stata una grandissima sfida quella di mettere assieme tutti gli elementi perché l’evento avesse poi una rilevanza non solo bilaterale, ma internazionale. La decisione finale è stata comunque presa lo scorso 11 ottobre, quando i due presidenti si erano incontrati a Atene per il Gruppo Arraiolos», un forum in cui una volta all’anno si vedono i capi di stato delle repubbliche parlamentari e anche di alcune tra quelle semi-presidenziali dell’Unione europea. «Lì hanno stabilito di incontrarsi a Trieste per commemorare assieme quello che fu un evento tragico per la comunità slovena in Italia, il centenario dall’incendio della Narodni Dom». La Casa del Popolo. «Sì».
Fu il 13 luglio del 1920. «Per gli sloveni che vivono in Italia fu una catastrofe nazionale. L’edificio era stato costruito nel 1904 per dare una sede a molte organizzazioni slovene, ma era divenuta un punto di riferimento anche per altri slavi che erano venuti a vivere in quella città multinazionale e multietnica, specialmente con lo sviluppo del porto. Erano arrivati serbi, croati, bosniaci, cechi, slovacchi. Nell’edificio c’era un teatro, un hotel, un ristorante, un bar, una cassa di risparmio. Era anche una bellezza architettonica, realizzata dall’architetto Max Fabiani». Un maestro dell’Art Nouveau dal cognome italiano anche se di madre tirolese, e anzi podestà nel comune natale di San Daniele del Carso durante il fascismo. Molti altri esponenti dell’irredentismo italiano avevano cognomi di chiara derivazione slava: Oberdan, Slataper, Stuparich… «Sono state sempre zone multietniche, con molta gente che aveva origini miste». Renzo De Felice definì il rogo del Narodni Dom come «il vero battesimo dello squadrismo organizzato». «In effetti erano squadristi che entrarono nel movimento fascista in seguito». Insomma, protofascisti più che fascisti veri e propri. «Esatto. C’era un clima di nazionalismo esasperato che fu il brodo di coltura del fascismo».
Kunstelj spiega che la lunga preparazione è stata necessaria soprattutto «per preparare un documento del governo italiano con varie entità italiana e due entità slovene: l’Unione culturale economica slovena e la Confederazione delle organizzazioni slovene. L’una è un po’ più di sinistra e l’altra un po’ più di destra, ma assieme coprono l’intera comunità slovena in Italia». Nella stampa italiana è stato scritto che per la prima volta una Repubblica della ex Jugoslavia ha riconosciuto la storia delle foibe. E’ vero? «È stata la prima volta che un presidente di una Repubblica della ex Jugoslavia ha reso pubblico omaggio alle vittime delle foibe, ma in realtà già dal 2001 era stato formato un gruppo di studio con storici sloveni e italiani, che ha riesaminato tutta la storia tra il 1880 e il 1956, analizzandone i nodi. Questo gruppo ha chiaramente ricostruito le sofferenze del popolo sloveno durante il fascismo: campi di concentramento, persecuzione, esilio. Però ha ricostruito anche come dopo il maggio del 1945 le nuove autorità jugoslave si resero colpevoli di gravi massacri. Vero è che ci sono punti discussi. Nella comunità slovena, ad esempio, in molti contestano che a Basovizza siano finiti cadaveri di italiani. Dicono che in realtà quella foiba è quasi vuota, e che dentro ci sono essenzialmente cadaveri di tedeschi, oltre che resti di animali e armi. Ma non c’è dubbio che negli attuali territori di Croazia e Slovenia è pieno di foibe che furono purtroppo tomba di morti italiani».
Ci sono state contestazioni anche nei confronti dell’omaggio ai fucilati del gruppo Tigr. Si è ricordato come si fossero resi effettivamente responsabili di un attentato terrorista contro un giornale fascista, in cui c’era stata una vittima. Ma possiamo dire che rendendo omaggio assieme ai casi più dubbi, Pahor e Mattarella hanno voluto comunque riassumere l’intera vicenda con un forte dato simbolico?
«Sì. Sono cose che per tutti noi rappresentano tantissimo. C’erano emozione e tristezza nei confronti delle vittime del post-guerra, e così è stato giusto esprimere un sentimento di pietà verso queste vittime e anche verso il popolo italiano. Allo stesso modo, portare assieme una corona sul monumento ai caduti antifascisti ha significato mostrare pietà verso questi tre giovani sloveni e un croato che furono condannati dal Tribunale speciale per la difesa dello stato. Come ha ricordato il presidente Mattarella, la storia non si può cambiare. Però è molto importante prendere lezioni da questa storia, in modo da non ripetere gli errori del passato».
Un dato interessante è che anche alcuni militanti del Tigr finirono nelle foibe. C’è la storia in particolare di Giuseppe Baucon, che è nota perché fu solo ferito dai titini e riuscì a uscirne ed a sopravvivere. Ma i titini massacrarono anche i dirigenti di quel Partito autonomista che voleva una Fiume indipendente da Italia e Jugoslavia: Mario Bisiach, Giuseppe Sincich, Nevio Skull. E c’è la storia di Angelo Adam: ebreo, legionario con D’Annunzio, militante di Giustizia e Libertà inviato al confino. Internato a Dachau, liberato dagli Alleati, infoibato dai titini con la moglie e la figlia. «Verissimo. Una cosa chiara è che, a differenza di quanto ripetono spesso alcuni politici italiani, le foibe non sono state solo un simbolo della persecuzione etnica contro gli italiani. Nelle foibe finirono anche coloro che erano anticomunisti, e spesso per ‘colpe’ molto piccole. Furono infoibati partigiani, furono infoibati sloveni che avevano idee politiche diverse. E’ stato un capitolo molto triste della nostra storia, su cui gli storici sloveni e italiano hanno fatto un capolavoro di ricostruzione».
In conclusione,
ci sono tante cose che uniscono i nostri due paesi. L’Italia è il secondo partner economico della Slovenia, con 9 miliardi di interscambio. Ci sono in comune tanti posti di lavoro, tante occasioni di scambio culturale e accademico, tante reti di trasporto, tanta cooperazione militare nella Nato e politica nell’Unione europea. Lavorare sulle cose che uniscono i nostri paesi è il modo migliore per rendere omaggio alle vittime di entrambe le nazioni.