La strage di Ankara sabato scorso ha innescato sulla stampa internazionale – e su quella italiana in particolare – una ridda di ipotesi, per lo più campate in aria. In particolare si tende ad accentuare la (presunta) colpa di Erdogan – responsabile, se non proprio di “strage di Stato” come ha titolato, nostalgico, “Il Manifesto” – per lo meno di aver acuito la tensione internazionale ed interna con i raid militari contro i Curdi e con un intervento in Siria che in molti considerano tiepido o, per lo meno, tardivo.
Lungi da noi voler negare i molti errori politici commessi da Erdogan e dal suo sodale e ideologo il premier Davutoglu, soprattutto negli ultimi mesi; errori nella gestione, in particolare, delle relazioni politiche allo stesso AKP, che sta portando ad una frattura insanabile con il suo predecessore Gul. Tuttavia le scelte di Ankara in politica estera in questi ultimi mesi e gli interventi militari stessi, ci sembrano palesemente dettati dalla necessità, e non frutto di avventurismo o balzane ambizioni di quello che, molti, chiamano il Sultano.
Da quando è cominciata la crisi siriana, la Turchia si è trovata sottoposta ad una incredibile pressione: tra i due e i tre milioni di profughi rifugiatisi nel suo territorio ed ospitati, per oltre tre anni, senza aiuto alcuno dall’Europa. Che si è svegliata solo di recente, sotto la minaccia di Ankara – in parte già inverata si – di aprire la porta dei Balcani alle masse di migranti.
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Continua la lettura dell’articolo a cura di Andrea Marcigliano, Senior fellow de Il Nodo Di Gordio per Barbadillo.it —> “Analisi. Il realismo della Turchia nello scacchiere mediorientale”