Chi pregò loro per ultimo? Di fronte ad un mondo moderno nel quale le religioni sono sempre di più fondate sull’odio, perché non tornare alla dea primigenia ed ai suoi fratelli e sorelle che per secoli accompagnarono l’umanità nel viaggio della storia?
Sono morti gli antichi Dèi? Quesito questo di un’attualità maggiore di quanto si possa genericamente immaginare, essendo l’antico paganesimo euro-mediterraneo prima del cristianesimo, il patrimonio spirituale su cui si fonda la nostra stessa civiltà.
Una questione ricorrente nella storia occidentale e che, affiorata sotto forma di varie correnti filosofiche, ha certamente avuto un ruolo determinante nel compimento di quell’Europa quale oggi la conosciamo. Pensiamo solo a certe speculazioni rinascimentali che recuperarono il sapere della classicità greco-romana. Del resto non si potrà certo misconoscere il debito che la filosofia occidentale ha nei confronti di questo retaggio antico. Il fondamento culturale dell’Occidente, oltre che quello religioso, è altresì pagano.
L’eredità classica del mondo greco e latino, cui potremmo allegarne altri di omologhi, scaturisce da un comune substrato indoeuropeo, mutuatosi successivamente – per utilizzare un’espressione dello storico Franco Cardini – nei “due polmoni dell’Europa”, ovvero nelle due componenti europee rispettivamente esponenti della cultura “romano-celto-germanica occidentale” – la prima – e “greco-balcano-slavo-ortodossa orientale”, la seconda.
Tuttavia in tal merito una menzione speciale, avendolo sovente postulato nelle sue opere, ma altresì per onorarne la memoria essendo scomparso l’11 febbraio scorso, spetta di diritto ad uno dei sommi rappresentanti dell’orientalismo italiano, uomo d’azione e al contempo myste, il prof. Pio Filippani Ronconi. Indologo di formazione, erudito e poliglotta, esperto di buddhismo, la cui versatilità spaziava in ambiti di ricerca veramente lontani fra loro – dall’islam al pensiero cinese, dal mondo nordico allo zoroastrismo – Filippani Ronconi ravvisava una convergenza spirituale fra l’antico paganesimo euro-mediterraneo e il variegato polimorfismo religioso induista.
Egli era solito affermare che gli Dèi dell’antica Roma si erano rifugiati in India. “La vita indiana, quindi ci appare – come quella dell’antica Roma – un succedersi ininterrotto di feste, cerimonie, liturgie e celebrazioni, attraverso le quali ogni indiano evoca e rinsalda il suo intimo e misterioso rapporto con la divinità o, meglio detto, con il divino”. Una concezione, dunque, quella induista, non eteroreferenziale del divino, come avviene nelle religioni abramitiche. Non il culto di una divinità concepita come “fuori di sé”, bensì una religione che è ‘cosmicizzazione’ dell’uomo, realizzazione dell’Ente spirituale che è in lui assopito e da cui egli medesimo è derivato, prima ancora che scorresse il tempo mortale, (Pio Filippini Ronconi, L’Induismo, Milano).
Ritornando all’Europa gli ultimi che pregarono gli antichi Dèi furono certamente quei popoli che vivevano in aree situate alla periferia dell’ecumene cristiana, come gli islandesi oppure i baltici. Tuttavia ne rimane ancora uno nell’estremo Nord della penisola scandinava: i lapponi o sami, una stirpe ugro-finnica in parte rimasta ancora fedele alle antiche credenze sciamaniche e pagane. Tant’è che nel 2006, un’iniziativa facente parte di un progetto internazionale di sensibilizzazione verso la sacralità della natura e verso le religioni animistiche, li ha visti protagonisti della realizzazione di un tamburo sciamanico, cui è stato attribuito l’appellativo di “Tamburo del Mondo”, che sta veicolando questo messaggio facendo staffetta in molti paesi in cui vi siano comunità religiose ispirate a questi principi.
Pertanto, mentre le cosiddette religioni istituzionalizzate, arroccate attorno all’intransigenza dei loro rispettivi dogmatismi sono sempre più caratterizzate dallo scontro e dalla contrapposizione reciproca, la via d’uscita da questa sorta d’impasse soteriologica sembra ancora una volta essere ravvisabile nell’opzione fra la religione del “conoscere” e quella del “credere”. Una dicotomia sempre esistita, di natura epistemologia oltre che religiosa, che affiora in particolar modo da un raffronto fra mondo arcaico e quello moderno. Il primo legato ad una forma di autoconoscenza che si potrebbe schematizzare nell’apoftegma ellenico: Γνῶθι σεαυτόν (gnôthi seautón) latinizzato in Nosce te ipsum. Un orientamento, che denota una via attiva, secca, improntata sull’esperienza individuale con il sacro e con il divino. Ovvero, utilizzando le parole di Filippani Ronconi, di natura non astratta e non discorsiva e tanto meno, limitata all’ambito etico-confessionale. Mentre il secondo, scaturito dalla conoscenza del mondo esterno, dal pensiero riflesso, dal dogma e dalla devozione.
Una sapienza che, sebbene in pericolo d’estinzione, è tuttora vivente fra rade popolazioni disperse, lontane non più dai confini della civiltà cristiana come un tempo, bensì dagli stessi percorsi di quella moderna, non importa se occidentale o altro.
Gli antichi Dèi, ovverosia il loro archetipo non è pertanto scomparso. Come già detto, lo ritroviamo in India ad esempio, così come presso alcune culture soprattutto centrasiatico-siberiane ove siano rimasti presenti degli elementi ascrivibili a tradizioni sciamaniche, sebbene qui si debba operare qualche distinzione nei confronti delle recenti rivisitazioni se non metamorfosi in chiave new age, neo-folkloristica o etnocentrica.
Ben venga anche il ritorno ad una dea primigenia, a quella divinità ctonia o tellurica a condizione che faccia da paredra all’altra uranica. E purché, questo tipo di rapporto con il sacro non assuma, sulla falsariga del noto quanto discusso bestseller di Dan Brown, il “Codice da Vinci”, una tale connotazione di centralità assoluta dell’elemento femminino, che – come direbbe René Guénon – è frutto di un rovesciamento dei simboli, un pregiudizio tipicamente moderno. In altri termini un servizio reso alla sinistra sovvertitrice e intrisa di quella misandria, propria di una società – mi si conceda il neologismo – sempre più ginecocratumenizzata, ovvero succube della ginecocrazia imperante. Dove il ruolo tradizionale dei sessi è sconvolto se non invertito e dove trovano un terreno fertile i gay pride ed i transgender di turno.
Comunque in ambito europeo, oltre che in Lapponia pare che anche in Islanda, terra dove l’ultimo dei berserkir – i guerrieri-belva consacrati ad Odino – fu ucciso per disposizione del primo vescovo verso l’anno mille, si assista ad un recupero dell’antico paganesimo attraverso la fede Ásatrú, il culto degli Asi, gli Dèi dell’antico pantheon germanico. Un fenomeno simile si registra nei paesi baltici. È auspicabile però che si tratti di un recupero in chiave tradizionale e non la rivisitazione moderna di un archetipo perduto.
Ermanno Visintainer