Dove sta andando la Turchia? Un quesito questo, che sta assillando politologi ed osservatori internazionali, la cui importanza è cruciale per gli equilibri geopolitici e strategici dell’intero continente europeo e non solo. La visita del premier turco Recep Tayyip Erdogan a Teheran, avvenuta verso la fine del mese scorso, è stata motivo di sorpresa ma anche di apprensione per la stampa occidentale, inoltre non sono mancate valutazioni contrapposte o comunque divergenti.
Il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, apparentemente noncurante dell’atavica rivalità e dello storico antagonismo fra i due paesi, soprattutto del modello laico e secolarizzato di islam finora ostentato dalla Turchia, ha accolto il suo omologo con la massima cordialità. Infatti, non ha fissato alcuna condizione preliminare alla visita: né quella di uscire dall’ombrello protettivo della Nato, né quello di troncare i rapporti consolidati con il “Grande Satana” americano. Sul tavolo dei negoziati Ahmadinejad ha posto invece un’offerta che difficilmente l’interlocutore può rifiutare: cooperare per la creazione di un “nuovo sistema regionale” finalizzato a riempire il vuoto di potere lasciato dalle recenti crisi.
Erdogan da parte sua, già aveva lanciato alcuni messaggi molto significativi al potente vicino quali: il veto ad Israele di partecipare alle esercitazioni aeronautiche della Nato in programma sul territorio turco, quindi gli accordi strategici con la Siria, ma soprattutto la sua presa di posizione a favore delle finalità civili del programma nucleare iraniano. Dichiarazione quest’ultima che rende la Turchia un attore assolutamente indipendente sullo scacchiere mediorientale ponendolo al di fuori di qualsivoglia parametro diplomatico occidentale, che altresì, sembra fare da eco all’altra invisa presa di posizione di Erdogan: il diverbio con il presidente israeliano Shimon Peres intercorso durante il forum di Davos, il 30 gennaio scorso in Svizzera.
Diciamo che la linea di apertura nei confronti di Teheran e il tentativo di riportare l’Iran entro un forum di discussione internazionale rientrano nel programma governativo dell’Akp (il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) fondato sul principio di stabilire rapporti amichevoli e di cooperazione con i paesi confinanti e vicini. Un’eloquente dimostrazione è la recente normalizzazione dei rapporti con due paesi storicamente ostili come l’Armenia e la Grecia, cui va aggiunta Cipro, pronunciatasi recentemente nientedimeno che a favore della candidatura della Turchia per la Ue.
E proprio qui, forse va ricercato il nocciolo della questione: la Turchia sembra aver smarrito l’interesse per l’adesione ad una Ue, caratterizzata dal suo nanismo politico e dai sentimenti contraddittori e sovente eccessivamente turcoscettici. A meno che non si tratti di un espediente finalizzato ad aumentare la propria influenza ed il proprio prestigio agli occhi dell’Occidente, sfruttando la posizione geostrategica di ponte, quindi di mediatore indipendente verso le aree “calde” del pianeta.
In realtà un ruolo preponderante in tutto ciò sembra averlo posseduto il nuovo corso della politica energetica turca. Il suo recente spostamento verso l’asse eurasiatico, verso la Russia, intrapreso in occasione del vertice trilaterale svoltosi il 6 agosto ad Ankara, fra Erdogan, Putin e Berlusconi, durante il quale è stato sottoscritto un protocollo di cooperazione Eni-Gazprom per la realizzazione del gasdotto South Stream . Un passo che ha raggelato le relazioni con Washington. Del resto Erdogan aveva già avuto modo di dichiarare (13 luglio) l’intenzione di trasportare il gas iraniano in Europa attraverso il gasdotto Nabucco, nonostante l’opposizione degli Usa. La reazione generale è stata una levata di scudi contro l’Akp, accusato di perseguire un programma di alleanze con paesi fondamentalisti e conseguente deriva islamista. Altri osservatori, anche in Europa, sembrano apprezzare questo nuovo protagonismo non aggressivo della Turchia o soft power, come lo ha definito il ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, considerato l’architetto di questo nuovo corso.
Non mancano posizioni scettiche verso una tale alleanza nemmeno da parte iraniana, che dal confronto con la Turchia su questo piano teme un offuscamento della propria immagine. Giudicando l’evento alla luce dell’attivismo in cui la Turchia, in questi ultimi anni, si è sempre distinta, al di là del fisiologico riassestamento degli equilibri regionali, a prima vista, questa inedita partnership con l’Iran è da valutare in un’ottica di mero pragmatismo politico.
Ermanno Visintainer