di ANDREA MARCIGLIANO
Freddezza, anzi autentico gelo diplomatico fra Ankara e Gerusalemme. Gli strascichi, apparentemente interminabili, dell’”incidente” della Mavi Marmara hanno spinto il ministro degli Esteri turco Davutoglu ad espellere l’ambasciatore israeliano e, parallelamente congelare gli accordi militari con lo Stato ebraico. Che non è cosa da poco, visto che sotto questo profilo, Gerusalemme rappresenta il secondo partner, dopo Washington, della Turchia. Insomma, le relazioni bilaterali turco-israeliane sembrano davvero essere scese al grado più basso della loro storia.
Eppure la reazione israeliana non sembra particolarmente preoccupata di questo progressivo alienarsi dei rapporti con quello che, sino ad oggi, era considerato il suo migliore amico in tutta l’area medio-orientale. E questo per alcune ottime ragioni. Infatti è palese come la nuova strategia geopolitica portata avanti dal governo di Erdogan sia diretta a fare di Ankara uno stabile riferimento per tutti i paesi arabi sunniti del Grande Medio Oriente; una strategia che – in modo forse un po’ sommario – si è preso l’abitudine di definire “neo-ottomana”. Ora, per poter fare questo, il Governo turco deve sicuramente recuperare un’immagine presso i popoli arabi che si era andata alquanto appannando dopo la crisi della Sublime Porta e, soprattutto da che Ataturk e i suoi epigoni portarono la repubblica sorta dalle ceneri dell’Impero Ottomano a saldarsi progressivamente con l’Occidente, sino a divenire, dopo, la II Guerra Mondiale, uno dei pilastri del sistema difensivo della NATO. Una strategia che, oggi come oggi, ha però ben poche ragioni d’essere, vista la fine della politica dei blocchi della Cold War e, soprattutto, le nuove relazioni con la Russia. Relazioni in costante miglioramento anche in forza dello sviluppo della Comunità Economica Eurasiatica costruita sull’asse portante Mosca-Astana. Ed il Kazakhstan sta, appunto, divenendo un polo d’attrazione interessante per Ankara, proprio perché paese turco fono, come turcofoni sono, ormai, altri componenti di questa CEEu.
Accanto però a questo novello pan-turanismo, la Turchia sta perseguendo, come dicevamo, il disegno di assumere nuovamente un ruolo di rilievo nel mondo arabo-sunnita, ritagliandosi uno spazio d’azione geopolitico da potenza regionale dominante. Per far questo, appunto, Ankara deve però assumere la guida dei paesi arabi, e ciò implica necessariamente, una certa alienazione nei rapporti con Israele. Tuttavia non è poi detto che questo vada, alla fine, a detrimento della sicurezza e degli interessi di Gerusalemme. Infatti Erdogan non sembra affatto intenzionato a rompere con la NATO, bensì soltanto ad approfittare della situazione generale – ed in particolare da un lato dall’uscita di scena dell’Egitto, dall’altra dell’incerta strategia dell’attuale Amministrazione statunitense – per andare a rioccupare un ruolo geopolitico che appartiene alla storia della Turchia nei secoli dell’Impero Ottomano. Senza che questo, però, implichi necessariamente una definitiva frattura né con Washington, né con Israele.
Di fatto, il ritorno sulla scena medio-orientale di Ankara sta trasformando lo scenario geopolitico, che sino ad ora aveva visto particolarmente attivi due soli “giocatori”. Da un lato l’Iran, riferimento dei gruppi sciiti da Hezbollah alla stessa Siria dominata dalla minoranza allawita di cui è espressione il regime di Assad; dall’altro l’Arabia Saudita, riferimento per gli arabi sunniti in forza della propria potenza economica. Arabia Saudita che, però, è stata anche il centro di irradiamento di un islamismo fondamentalista, di matrice wahabita, che ha fatto da brodo di cultura per i movimenti jihadisti più radicali. D’altro canto non va dimenticato che il (cosiddetto) fondamentalismo islamico – di origine egiziana – è stato potentemente finanziato dai sauditi dai tempi immediatamente successivi alla Rivoluzione Khomeinista iraniana, quando l’allora re Feisal pensò di utilizzarlo per bilanciare la minaccia rappresentata dalla marea montante nell’Umma sciita. Per Israele, comunque, la padella e la brace. Ora, invece, l’interventismo crescente di Ankara potrebbe prefigurare un “mondo sunnita” arabi guidato dai turchi, sostanzialmente alieni da forme di islamismo radicale e interessati a mantenere il Medio Oriente ed il Maghreb in uno stato di equilibrio e di, sostanziale, “pace”. Un’eventualità che potrebbe rappresentare per Gerusalemme una garanzia di sicurezza molto maggiore di quella della vecchia Turchia sì dichiaratamente “amica”, ma sostanzialmente estranea al Gioco medio-orientale.