Il Nodo di Gordio ha intervistato l’On. Mario Barbi (Partito Democratico). Profondo conoscitore della Germania (vi ha studiato dal 1978 al 1981 e lavorato dal 1983 al 1993 come corrispondente da Bonn e iscritto all’Associazione stampa estera. Dal 1998 al 2001 è stato dirigente del Gruppo editoriale “L’Espresso” come responsabile dell’Ufficio Studi. Dal 2001 al 2005 ha ricoperto il ruolo di direttore presso l’AGCOM. Attualmente è membro della Commissione Esteri della Camera dei Deputati.
Con lui abbiamo approfondito i limiti e gli effetti sulla stabilità dell’Unione Europa, imposti dalla politica del direttorio franco-tedesco sia nei rapporti tra i Paesi dell’Ue sia nelle relazioni di politica estera.
L’Unione Europea è, o era sino a poco tempo fa, un gigante economico e un nano politico. Di chi, a Suo avviso, la responsabilità? E quanto questo “nanismo” ha influito sulla crisi presente?
Dell’Unione europea ci colpiscono oggi i limiti e le insufficienze mentre consideriamo normali e acquisiti i risultati raggiunti, dalle frontiere aperte alla moneta comune. Si potrebbe dire che bisogna accontentarsi. Ma pensare che ci si possa rassegnare allo status quo o a ad ulteriori progressi per piccoli passi è però un’illusione che comporta gravi rischi. Le incertezze e gli errori mostrati nella gestione della crisi dell’euro ci dicono infatti che nemmeno ciò che ritenevamo acquisito può dirsi scontato senza un salto di qualità nell’integrazione politica. Ed è proprio su questo piano che è maggiormente evidente l’inadeguatezza delle leadership politiche nazionali dei maggiori paesi dell’Unione. Non c’è il coraggio della visione e scarseggia il senso dello storia. C’è paura della democrazia. I leader di Germania e Francia coltivano i loro difetti nazionali piuttosto che le loro virtù. L’Italia ha fatto mancare il proprio essenziale contributo per quasi un decennio, bloccata da lotte intestine o alla ricerca di improbabili altre vie. Il Regno Unito è sempre stato nell’Unione come freno e non come motore. Il cancelliere Helmut Kohl, poche settimane dopo la caduta del muro, avvenuta il 9 novembre 1989, seppe presentare un piano in dieci punti per la riunificazione tedesca, la quale fu un fatto compiuto già il 3 ottobre 1990. Basta ricordare questo fatto per essere terribilmente spaventati dalla miopia e dalla pavidità dei leader europei di oggi. Ci vorrebbero oggi dei leader europei come Kohl, in grado di presentare ai cittadini dei diversi paesi un piano per dare vita in un tempo breve a un’Unione politica che preluda agli Stati Uniti d’Europa. Invece il dibattito è dominato dai tecnicismi economico-finanaziari. Importanti, importantissimi ma soltanto se inseriti in un progetto che miri a dotare l’Unione di una personalità politica vera, vale a dire di una sovranità che può nascere soltanto da un atto di forte legittimazione democratica. In tale senso bisognerebbe riconoscere che l’Europa ha fatto il massimo possibile seguendo la via dell’integrazione economica (dal mercato unico alla moneta comune) e ha raggiunto il proprio limite anche la filosofia funzionalista a cui ha affidato il proprio sviluppo e che immaginava che l’integrazione politica sarebbe seguita automaticamente a quella economica. Al di là delle complicate e contraddittorie architetture istituzionali dell’Unione (chi fa parte dell’euro e chi non ne fa parte o la presenza di un parlamento eletto a suffragio universale ma che non ha davvero nessuna delle prerogative sovrane dei parlamenti) , la crisi dell’euro sta rendendo quanto mai evidente che non può reggere all’infinito un sistema fondato su una moneta senza stato e condivisa da una serie di stati senza moneta. Ecco, questo mi sembra significhi applicata all’Europa di oggi l’espressione “gigante economico e nano politico”, locuzione coniata in realtà per caratterizzare la condizione della Repubblica Federale di Germania a partire dagli anni ’70.
L’asse franco-tedesco ha sempre pesantemente condizionato le politiche della UE. Quanto, questo fatto ha impedito di cogliere opportunità in altre aree geopolitiche? E, in particolare, quanto ha danneggiato una politica mediterranea unitaria?
Non credo che si possa parlare di asse franco-tedesco per la politica estera dell’Unione. Ma su questo dirò più avanti, mentre va riconosciuto che il cosiddetto asse franco-tedesco ha avuto grandi meriti storici per l’Europa, ma oggi sta mostrando i suoi limiti. Per un verso nessuna Unione europea è possibile senza una forte intesa tra Germania e Francia. Per l’altro verso, un’Unione europea dominata dalla coppia franco-tedesca non sarebbe né realistica né alla lunga sostenibile da quei due soli paesi. Quello che manca oggi all’Europa sono istituzioni democratiche sovrannazionali dotate di effettivi poteri. L’asse franco-tedesco ha funzionato come “motore europeo” negli anni ’70-’80-’90 quando, grazie anche al forte e convinto concorso italiano, promosse un’integrazione sempre più stretta dei paesi membri ancorata però ad istituzioni comuni più forti e riconosciute. Purtroppo, dalla metà del decennio scorso, paradossalmente poco dopo l’introduzione dell’Euro e contestualmente all’allargamento a est dell’Unione (1 maggio 2004 – 25 stati membri) ma non a causa di esso, si è invece di fatto inceppata la costruzione dell’Europa comunitaria e sovrannazionale mentre ha preso sempre più peso l’Europa intergovernativa. Certo, dietro questa involuzione c’è la bocciatura per referendum del trattato costituzionale europeo in Francia (29 maggio 2005) e in Olanda (01 giugno 2005), trauma seguito poi dal parto tormentato del trattato di Lisbona approvato nel dicembre 2007 ma entrato in vigore solo recentemente e dopo un’ulteriore bocciatura popolare in Irlanda (12 giugno 2008) e successivo ‘ravvedimento’. Sta di fatto che gli attuali leader conservatori di Francia e Germania sono poi diventati i campioni di questa Europa fondata sul ‘club’ dei capi di stato e di governo, ‘club’ dominato, a sua volta, proprio dai due maggiori paesi dell’Euro. Purtroppo l’Europa di oggi assomiglia sempre di più a un’organizzazione interstatale piuttosto che una federazione di stati. Questa involuzione non è dovuta in sé al trattato di Lisbona, che è ambivalente e potrebbe essere interpretato ed applicato in modo più comunitario e valorizzandone lo spirito ‘federale’, ma a scelte politiche di fondo e a convenienze interne delle leadership di Francia e Germania innanzitutto, ma non solo. La preminenza della dimensione intergovernativa dell’Unione naturalmente stride con la realtà della moneta comune e alla lunga non è compatibile con essa. Né quella contraddizione può essere superata e composta con discipline fiscali o di bilancio sempre più rigorose, con sanzioni più o meno automatiche per i trasgressori e sottrazioni di sovranità crescenti ai parlamenti nazionali. Si ritorna quindi al punto della necessità di un salto di qualità politico dell’Unione. Brevemente, infine, sulla politica di cooperazione euro-mediterranea e sul ruolo franco-tedesco in chiave di politica estera europea. Magari ora si ricorda l’intesa Chirac-Schroeder contro la guerra anti-Saddam di Bush jr, ma spesso Francia e Germania hanno avuto priorità diverse e fatto scelte diverse in politica estera: ricordo negli anni ’90 la disintegrazione della Jugoslavia e come Francia e Germania abbiano proceduto in modo divergente nel riconoscimento delle nuove repubbliche ex-jugoslave; ricordo che l’allargamento ad est è stato certamente una priorità della Germania ma non altrettanto della Francia; ricordo che nella recente guerra contro Gheddafi la Francia è stata primo attore protagonista mentre la Germania si è defilata; ricordo che Sarkozy considera il Mediterraneo una tale priorità per la Francia da avere fortemente voluto la nascita di una Unione per il Mediterraneo che si è rivelata politicamente velleitaria e che lungi dal potenziare la già debole politica di vicinato mediterraneo dell’Unione europea ha finito per renderla ancora più fragile ed evanescente. No, se l’Unione europea non ha colto in misura sufficiente le opportunità geopolitiche nel Mediterraneo questo non si deve a un’azione congiunta e ‘malevola’ di Francia e Germania, bensì alla combinazione della inadeguatezza intrinseca degli strumenti di azione esterna dell’Unione con il protagonismo solitario, più o meno consapevole e performante, dei singoli stati membri. Ciononostante, le politiche di vicinato della Ue, sia sul fronte mediterraneo che su quello orientale, non sono affatto prive di importanza o di significato. Certo, per dispiegare appieno la loro efficacia politica ed economica richiederebbero una politica estera e di sicurezza dell’Unione ben più forte e decisa di quella che pure sta prendendo corpo con l’Alto Rappresentante istituito con il trattato di Lisbona e, inoltre, collaborazione anziché competizione in politica estera tra gli Stati membri e degli Stati membri con la Ue.
La chiusura nei confronti della Turchia è una scelta tutta francese e tedesca. A Suo parere una scelta giusta o un danno per l’Unione? E per l’Italia?
Effettivamente, nel caso della Turchia Francia e Germania frenano l’Unione europea e sono interessate più a tenere aperti i negoziati di adesione della Turchia alla Ue che a concluderli. Ciò è del tutto evidente se si considera che la richiesta di adesione della Turchia risale al 1987, la statuto di paese candidato all’adesione risale al 1999 ed i negoziati di adesione sono in corso dal 2005. E’ vero che i dossier da affrontare sono numerosi e complessi e che alcuni sono qualitativamente assai delicati (Cipro, la numerosa minoranza curda, i diritti umani e la libertà di culto), ma non è meno vero che la Turchia ha mostrato grande apertura e disponibilità a tenere conto delle osservazioni della Ue. A mio parere, la tattica dilatoria adottata dalla Ue nei confronti della Turchia riflette una doppia insicurezza dell’Unione. La prima è di tipo storico culturale, affonda la propria radice nella irrazionalità e nella frattura islam-cristianesimo, rinviando a una vicenda di conflitti plurisecolari e ad ataviche diffidenze e paure. E’ evidente che questo background di incertezza può fare comodo a chi vuole tenere la Turchia lontana dall’Europa, ma non è meno evidente la possibilità di contrastare la strumentalità e l’inconsistenza attuale di quell’approccio conflittuale. La seconda insicurezza è di tipo politico e istituzionale e attiene alla debolezza dell’edificio comunitario e al timore che esso, proprio in ragione della propria incompiutezza, non sia in grado di sostenere la piena integrazione della Turchia che è, sotto ogni punto di vista, non soltanto un grande paese, ma quello che sarebbe destinato a diventare il più grande paese dell’Unione per estensione territoriale e, in poco tempo, anche per popolazione. L’interesse della Turchia per l’Europa costringe dunque l’Europa a prendere atto della propria incompiutezza e a fare i conti con la propria debolezza. Ne deriva un quadro complesso che non può essere ‘risolto’ in modo semplice. Ciò detto, non vi è dubbio che l’Italia abbia interesse a tenere aperte alla Turchia le porte dell’Europa e a fare di tutto per accelerare i negoziati di adesione e, comunque, a fare di tutto per realizzare progressi rapidi e consistenti anche di tipo intermedio. Le ragioni di questo interesse, che non dovrebbe essere solo italiano ma di tutta l’Unione, sono molteplici ed abbastanza intuitive: non sono solo ragioni di tipo economico e commerciale per l’enorme dinamismo che caratterizza la Turchia, ma sono anche ragioni di tipo culturale-istituzionale (per la tradizione secolare dello stato e per l’esperienza laica dell’islam politico turco) nonché di tipo geo-politico e geo-strategico rispetto agli scacchieri mediorientale, mediterraneo e dell’Asia centrale. La verità è però che soltanto un’Unione europea forte sarebbe in grado di aprirsi davvero alla Turchia e quello che manca all’Europa è proprio questa forza.