“Yurtta Sulh, Cihanda Sulh, Telefonda Sulh”
L’attesa è finita. Dopo quasi tre anni dall’incidente della nave turca Mavi Marmara che ha seriamente compromesso i rapporti diplomatici tra Turchia ed Israele, una telefonata del Capo del Governo israeliano Netanyahu al Primo Ministro turco Erdoğan porge le scuse ufficiali dello Stato ebraico, chiude il caso Freedom Flottilla e apre a potenziali nuovi scenari tra i due Paesi.
L’innesco della crisi bilaterale che ha segnato le relazioni turco-israeliane, per trentaquattro lunghi mesi sino allo scorso 22 Marzo, è da individuare nell’uccisione di nove attivisti turchi nel corso dell’assalto di un commando aviotrasportato israeliano su una nave turca. Nave di aiuti umanitari che stava cercando di forzare il blocco marittimo con l’intento di raggiungere le popolazioni della Striscia di Gaza.
Una tragedia che ha avvelenato il dialogo tra il Governo di Ankara e quello di Gerusalemme, un inconveniente che ha messo su posizioni quantomai distanti i due Paesi sino a raggiungere approcci del tutto contrastanti. In questo senso lo Stato turco ha rapidamente mutato la propria percezione d’Israele e ridefinito il proprio peso regionale sbilanciandolo in favore palestinese ed iraniano. Ne è in breve derivato un aperto sostegno alle forze di Ḥamās a Gaza ed una parallela linea politica avversa allo Stato israeliano caratterizzata anche dai toni accesi usati da Erdoğan per definire il sionismo al pari di un crimine contro l’umanità. Preoccupanti dichiarazioni, che seppur prontamente e parzialmente smentite, hanno richiamato alla mente le iraconde parole del Primo Ministro iraniano Ahmadinejād, nemico giurato di Israele.
Dal canto suo lo Stato ebraico, dall’incidente del 31 Maggio 2010 ha accentuato ancora di più il suo stato di isolamento politico nella regione, perdendo anche l’unico partner tra gli Stati arabi dell’area.
La telefonata che da Tel Aviv ha raggiunto Ankara ha finalmente messo un punto al gelo delle relazioni Turchia-Israele. Una soluzione raggiunta soprattutto grazie all’intercedere dell’opera di mediazione statunitense attraverso i suoi due uomini chiave in ambito estero: il Presidente Obama ed il Segretario di Stato Kerry. Quest’ultimo aveva fatto visita in Turchia proprio quindici giorni prima che il Presidente Obama atterrasse a Tel Aviv, tessendo una fitta rete di note diplomatiche che attraverso Washington provavano a ricucire lo strappo turco-israeliano. È toccato in fine al Presidente statunitense giocare l’ultima mossa e convincere il Primo Ministro israeliano ad alzare la cornetta.
Alla fine la riconciliazione sembra essere riuscita. Una telefonata con tutta probabilità mal digerita dal Premier Netanyahu, ma tuttavia una soluzione trilateralmente utile. Utile a chi ha chiamato, tenuto conto dello scacchiere regionale, per uscire da una situazione di pericoloso isolamento per cui ci si può permettere un solo Paese ostile alla volta e per cui è meglio avere un alleato tiepido piuttosto che un nuovo nemico. Utile a chi ha risposto, che finalmente ottiene quanto a lungo rivendicato e in più consente di saziare la propria opinione pubblica, superandola in favore di una potenziale manovra di normalizzazione dei rapporti con Israele. Utile in fine anche a chi, nel ruolo degli Stati Uniti, ha composto il numero della telefonata, potendo nuovamente contare su due importanti punti d’appoggio tornati a cooperare nell’arginare l’emergenza siriana ed il non meno complicato caso iraniano.
Si delinea in tal modo un quadro di ritrovata predisposizione al dialogo tra Ankara e Gerusalemme, un nuovo assetto che lascia spazio a positive prospettive future ma che allo stesso tempo conserva elementi d’incertezza in cui ancora diverse questioni spinose tra Turchia ed Israele vanno definite. Due su tutte i contenziosi sui giacimenti di gas nelle acque cipriote e le relazioni con le autorità palestinesi.
Con rispetto al confronto turco-israeliano sullo sfruttamento dei giacimenti di gas ciprioti è necessario sottolineare che questo è dettato dalla competizione tra i due Paesi in materia di approvvigionamenti energetici. Una competizione che servirebbe a potenziare il ruolo della Turchia di hub energetico tra Europa ed Asia, mentre consentirebbe ad Israele di allentare la propria massiccia dipendenza energetica verso l’esterno. Se per il Governo turco l’accesso ai fondali ciprioti è visto più come una naturale pertinenza derivata dalla speciale relazione che intercorre con la Repubblica Turca di Cipro del Nord, sul fronte israeliano la questione è tratta con altrettanta attenzione ma scegliendo come interlocutore la Repubblica di Cipro meridionale, lo Stato membro UE al centro della bufera economica di queste settimane.
In tal senso tra Gerusalemme e Lefkosia (Nicosia Sud) è stato stretto un accordo che non solo riconosce ad Israele la possibilità di inglobare l’area marittima di Zona Economica Esclusiva spettante a Gaza, bensì garantisce l’ingresso delle proprie Forze Armate all’interno delle frontiere marittime della parte dell’isola greco-cipriota. Una situazione delicata che certamente avrà bisogno di diverse nuove telefonate tra Netanyahu ed Erdoğan.
In relazione alla questione palestinese infine, sembra meno probabile un repentino cambio di rotta da parte del Governo turco nelle relazioni con le autorità palestinesi. È lecito aspettarsi che la Turchia porterà avanti il suo dialogo nell’area a promozione di un processo di pace, con la differenza che una volta recuperati a pieno i rapporti con lo Stato israeliano il Governo di Ankara potrebbe muovere da mediatore diretto per nuove forme di compromesso tra israeliani e palestinesi, prima fra tutte l’allentamento dell’embargo imposto alla Striscia di Gaza. A tal riguardo il Premier turco Erdoğan, contestualmente con l’accettazione delle scuse israeliane, si è affrettato ad annunciare una sua imminente visita ufficiale a Gaza per il prossimo Aprile.
Che non sia l’occasione per uno storico incontro anche con il Primo Ministro Netanyahu dopo trentaquattro mesi di gelo diplomatico?
Matteo Marsini ( Esperto di Diritto e Relazioni Internazionali )
Roma 29 Marzo 2013
Mi stupisce come il Qatar, sponsor della causa palestinese, non rivendichi per conto dell’ANP il diritto allo sfruttamento dei giacimenti che sono antistanti la striscia di Gaza!