di Andrea Marcigliano *
Gli scontri di Homs, che secondo Al Arabiya avrebbero causato quasi 400 morti ed oltre un migliaio di feriti, potrebbero sembrare suonare come campane a morto per il regime di Damasco. Infatti, la notizia è giunta proprio nel momento in cui massima si sta facendo la pressione sul Consiglio di Sicurezza dell’ONU perché non solo decreti un embargo contro la Siria, ma anche getti, con una pronuncia unanime, le premesse per un prossimo intervento internazionale a scopo “umanitario”. In sostanza una replica di quello che è accaduto poco più di un anno fa in Libia: anche allora uno dei due grandi Network arabi – in quel caso Al Jazeera – denunciò la violenza inaudita della repressione delle proteste contro il regime, ponendo le premesse per l’intervento militare della NATO, fortemente voluto da Parigi e Londra, e guidato dietro le quinte da Washington, in ossequio a quella che potremmo definire una sorta di corollario alla “Dottrina Obama”: mai esporsi in prima persona, e semmai spingere altri avanti, sul proscenio dei conflitti.
Nel caso della Siria, però, appare evidente che una decisione unilaterale della NATO, priva di un esplicito mandato ONU, non sarebbe facilmente praticabile. Troppo vicino, tradizionalmente, il regime di Assad a Mosca, che ancor oggi ancora le proprie navi da guerra nei porti siriani; troppo stretta la relazione tra Damasco e Teheran; troppo delicato, infine, lo scenario medio-orientale per r pensare che i membri europei dell’Alleanza Atlantica possano accettare di venirvi coinvolti. Per di più Sarkozy si trova in prossimità di una difficile vigilia elettorale, ed anche il britannico Cameron non naviga in acque (interne) proprio tranquille. Quanto all’Italia – che, ricordiamolo, è pur sempre in una posizione strategica nel Mediterraneo – beh… pensare che il prof. Monti possa, in questo frangente, farsi trascinare in un qualche conflitto è (quasi) fantapolitica. E poi nessuno dei partner europei di Washington ha davvero interesse per cooperare ad un Regime Change in Siria, soprattutto perché questo implicherebbe una rottura definitiva con Teheran, con inevitabili ricadute “commerciali”. Non è infatti certo un caso che, proprio in questo frangente, il ministro del petrolio iraniano, Rostam Quassemi ha dichiarato che il governo iraniano sta valutando di cessare le forniture di petrolio a determinati “paesi europei” ancora da definire. E ventilato anche la sospensione di altri, importanti, contratti industriali. Un segnale molto chiaro e preoccupante, soprattutto se si pensa che, in perfetta concomitanza, il Premier russo Putin ha annunciato che, a causa di necessità del mercato interno, Gazprom ridurrà del 10% le forniture di gas ai paesi dell’Europa Occidentale.
A premere, dunque, per un intervento militare in Siria resta, accanto a Washington, una ben strana coalizione. Una coalizione che annovera, ovviamente, Gerusalemme, anche se, ad onor del vero, il governo Netanyahu appare alquanto tiepido, temendo che, cacciato Assad, a Damasco possa emergere un regime guidato dalla Fratellanza Musulmana. Tuttavia Israele appare sempre più preoccupata dello sviluppo delle potenzialità nucleari iraniane, al punto che, secondo molti osservatori, sarebbe pronta ad un intervento diretto contro i siti atomici di Teheran. E Assad è stretto alleato di Ahmadinejad. Ragione, questa, che affianca per altro a Washington anche i sauditi e gli emirati del Golfo, in quella che potrebbe apparire come la reviviscenza dello storico conflitto fra sunniti e sciiti. Gli Usa, non a caso, stanno fornendo oltre 60 mld. di dollari di forniture militari a Riyadh, ma la vera forza dei principi arabi non è certo rappresentata dall’esercito, quanto piuttosto dalla capacità, ormai ampiamente dimostrata, di manipolare l’opinione pubblica internazionale attraverso l’informazione e l’uso dei due grandi Network, Al Arabiya ed Al Jazeera. Soft Power che ha dato eccellente prova di sé in Libia.
Di conseguenza l’unico alleato militarmente efficiente su cui gli USA potrebbero contare per un “intervento umanitario” in Siria è la Turchia. Ed Ankara, certo, avrebbe molto interesse a provocare, e dirigere, un cambio di regime a Damasco. Ma il governo Erdogan ben difficilmente si esporrebbe per favorire gli interessi dei sauditi, con i quali ha iniziato un duello silenzioso per la supremazia nell’universo sunnita. Un intervento turco, dunque, potrebbe aprire a scenari ancor più complessi, facendo esplodere molte tensioni latenti in tutto il Medio Oriente.
Infine, l’incognita è pur sempre rappresentata dalla posizione della Russia. Il Cremlino è apparso, ultimamente, più disposto a lasciar passare in Consiglio di Sicurezza mozioni di condanna delle repressioni in Siria, ma ha sempre opposto il veto ad ogni ipotesi di intervento esterno, spalleggiato in questo, dalla Cina, anch’essa preoccupata di non interrompere le relazioni commerciali con gli iraniani (tanto che la risoluzione presso le Nazioni Unite di condanna del regime siriano è stata respinta nella serata di sabato).
Un rebus estremamente complicato, quindi. Un Rebus che l’Amministrazione Obama si trova a dover cercar di sbrogliare proprio nell’imminenza delle elezioni presidenziali. Decisamente il momento meno felice per prendere decisioni a mente lucida. E per rischiare.
* Senior Fellow de “Il Nodo di Gordio”