A caldo, dopo i risultati elettorali, difficile, ovviamente, fare previsioni. Unica certezza resta che il progetto di Erdogan di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale “forte” sembra ormai abortito; dato che potrebbe aprire una crisi all’interno dello stesso AKP, dove in molti, dall’ex Presidente Gul allo stesso primo ministro Davutoglu non sembra condividessero totalmente il disegno del Sultano. Fratture interne sino ad oggi tenute in ombra da quella che sembrava essere l’irresistibile egemonia del AKP, e che ora, per la prima volta, viene messa seriamente in discussione.
Interessante, poi, notare come l’insucceso di Erdogan sembra dovuto all’affermazione del Partito che, per la prima volta, rappresenterà ad Ankara la nutrita minoranza curda, che esce così dal cono d’ombra della clandestinità per divenire forza politica agente sulla scena nazionale. E questo potrebbe implicare anche una qualche influenza sulle scelte di politica estera, ridefinendo i rapporti fra la Turchia ed i limitrofi paesi medio-orientali. In particolare potrebbe costringere il futuro governo a rivedere una politica mirata a sostenere in MO e nel Maghreb forze politiche di matrice islamista, in particolare legate alla Fratellanza Musulmana. E proprio questo potrebbe riaprire la strada ad un riavvicinamento con Washington, soprattutto in previsione di un cambio della guardia nello Studio Ovale che – sia che vinca un dem come la Clinton, sia, soprattutto, che si riaffermino i Repubblicani (Jeb Bush?) – certo implicherà una forte svolta nella politica statunitense in Medio Oriente. Una svolta che dovrebbe necessariamente riannodare il rapporto privilegiato con Ankara, quel rapporto che ne aveva fatto la sentinella della NATO nella regione.
Infine proprio il riavvicinamento con Washington potrebbe riaprire anche il dialogo con la UE, anche in considerazione del fatto che l’ingresso dell’Armenia nell’Unione Eurasiatica di Putin rende, oggettivamente, difficile percorrere una via alternativa.
Andrea Marcigliano
Senior fellow
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