Intervista a cura di Daniele Lazzeri, chairman de “Il Nodo di Gordio”
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Christopher M. Davidson ha studiato Storia Moderna presso il King College, Università di Cambridge, prima di prendere il suo Master in Lettere e Dottorato di filosofia in Scienze Politiche presso l’Università di St. Andrews. Ha vissuto e lavorato ad Abu Dhabi, Dubai, e a Beirut. Prima di entrare in Durham è stato assistente professore all’Università di Zayed negli Emirati Arabi Uniti, all’inizio presso il campus di Abu Dhabi, poi a Dubai. È anche fellow della UK Higher Education Academy e nel 2009 è stato un professore associato in visita all’Università di Kyoto, in Giappone. Il suo nuovo libro, “Dopo gli sceicchi: Il prossimo collasso delle monarchie del Golfo” è stato pubblicato a novembre 2012 nel Regno Unito da Hurst & Co.
Nel suo ultimo saggio Lei prevede una prossima crisi delle Monarchie del Golfo, in particolare dell’Arabia Saudita, che, in genere, si ritiene sia stata rafforzata dalle Primavere Arabe. Quali elementi le fanno ritenere tale crisi imminente? E che effetti avrebbe sulla stabilità del Golfo la caduta degli Sceicchi?
Tale crisi sarà probabilmente presto a ridosso dell’Arabia Saudita, non solo a causa delle carenze della sua economia fondata su sovvenzioni e della crescente nonché rapida incapacità di offrire sufficienti benefici e impieghi al suo numero crescente di cittadini, ma anche a causa dell’impatto delle potenti, quanto “ipermodernizzanti” forze sulla sua società, ovvero i social media e altre tecnologie che, per la prima volta nella storia del paese, stanno permettendo ad ampi strati della sua popolazione di comunicare tra loro, senza vigilanza da parte delle autorità statali.
Come i gruppi di opposizione si consolidano e continuano a fornire migliore organizzazione e manifesti, cercheranno di convincere la regione e la comunità internazionale che l’instabilità può essere evitata, soprattutto se promettono parlamenti eletti, adesione alle convenzioni internazionali sui diritti umani, restando impegnati nell’esistente commercio internazionale e nelle partnership di investimento.
Arabia Saudita e Qatar hanno esercitato, con i loro Media pan-arabi – Al Arabya ed Al Jazeera – un’influenza notevole in occasione della rivolta libica e, oggi, nella questione siriana. Si può, a Suo avviso, parlare oggi di un Soft Power “arabo”, controllato dalle Petro-monarchie del Golfo?
L’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, si stanno risvegliando “in ritardo” rispetto alla primavera araba, avendo fin dall’inizio cercato di utilizzare le loro risorse per esercitare un certo controllo sul processo, includendo forniture di armi, ma anche diversi approcci di “soft power”, nella speranza che la rivoluzione in Siria segnerà l’ultima fermata della Primavera Araba. Inoltre, hanno cercato di creare l’immagine di un “inverno islamista”, nel tentativo di dissuadere le proprie popolazioni circa la possibilità di un futuro democratico e moderato per il mondo arabo. Il Qatar ha ovviamente voluto promuovere gruppi islamisti nella regione allargata, intuendo le loro probabili vittorie elettorali. Ma, come con le altre monarchie del Golfo, traccia per la primavera araba una linea che si estende oltre la Siria e all’interno del Golfo. Il suo sostegno alle rivoluzioni in Nord Africa e in Siria non è stato replicato nel vicino Bahrein, per esempio, infine, negli ultimi mesi, ha iniziato a imprigionare un certo numero dei propri attivisti indigeni.
Il tentativo, violentemente represso, di una “Primavera” del Bahrein ha evidenziato il problema degli sciiti soggetti alle monarchie wahabite del Golfo. Una questione che potrebbe portare ad un conflitto con l’Iran?
L’aspetto iranianoè stato massicciamente sovradimensionato all’interno delle monarchie del Golfo, soprattutto nel tentativo di raffigurare alcune proteste in Bahrain e Arabia Saudita come settarie e in qualche modo “in combutta” con l’Iran. Questa è stata una strategia utile per mantenere salda l’alleanza con gli occidentali di fronte ad una grande “minaccia iraniana” di instabilità regionale. In realtà, però, non ci sono collegamenti formali tra i gruppi di opposizione in questi paesi e l’Iran. In realtà, la maggior parte dei religiosi sciiti, nel Golfo, sottoscrivono il pensiero politico di leader sciiti fondamentalmente iracheni, piuttosto che quelli iraniani. Non dovrebbe costituire una sorpresa il fatto che gli sciiti del Bahrein e dell’Arabia Saudita siano stati i primi a sollevarsi contro le monarchie, come lo sono stati storicamente i settori più discriminati e poveri della popolazione. I movimenti di opposizione, negli Emirati Arabi Uniti e in Kuwait, contano meno sciiti coinvolti, data l’esiguità delle popolazioni sciite in quegli stati, contribuendo così a decostruire l’argomento settario su gruppi di opposizione del Golfo.
Tornando al Suo saggio: la crisi degli Sceicchi a quali sistemi politici aprirebbe le porte? Non vi è il rischio dell’affermazione di gruppi/movimenti politico-religiosi ancora più radicali e vicini al jihadismo? E come verrebbe da Washington e Londra visto un eventuale regime Change a Riyadh?
Come ho analizzato in precedenza, così come i gruppi di opposizione continuano a coalizzarsi, apportando gradualmente varie parti al tavolo, fra cui islamisti, gruppi giovanili, capi tribù, ecc., ci sono probabilità di vedere movimenti di più ampia base, ben consapevoli della necessità di evitare elementi radicali che vengono alla ribalta, e altrettanto consapevoli della necessità di tenere salde le alleanze militari e i collegamenti commerciali internazionali esistenti. In molti modi, Washington e Londra hanno molto meno da temere da governi trasparenti che si fanno carico, sia in monarchie costituzionali (ipotizzando una transizione pacifica) che repubbliche democratiche (in transizioni più riottose, forse in Bahrein), di come queste amministrazioni dovranno probabilmente dare la priorità alle misure anti-corruzione, creando ambienti normativi migliori, e onorare le convenzioni internazionali sui diritti umani.
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