Non c’è ambito in cui il nuovo Celeste Impero, caratterizzato fino a ieri da un orgoglioso isolamento autoreferenziale ed oggi guidato da un’oligarchia, che, attraverso la rivisitazione di quel simbolo taoista raffigurante la coincidentia dei due principi opposti dello Yin e dello Yang in chiave simmetricamente post-maoista e neocapitalista, non faccia sentire la sua voce sempre più forte ed influente. Che la Cina sia una delle macropotenze emergenti all’interno del nuovo contesto multipolare è ormai chiaro a chiunque, soprattutto all’altra potenza transoceanica, sulla china scivolosa di un declino ineluttabile che si prospetta all’orizzonte.
Ed è proprio nella cornice di quest’interdipendenza intrisa di odio e amore, dai risvolti quasi freudiani ma con presupposti prettamente economici, che sembrano evolversi i confronti fra le due potenze. E sebbene vi sia un gran parlare di G2, la Cina in realtà appare sempre più delusa dall’interlocutore a stelle e strisce, dalla sua leadership così come dall’aleatorietà delle sue strutture finanziarie.
A ben vedere, un preludio dell’atteggiamento più sicuro di sé che la Cina sta assumendo nelle questioni internazionali lo si poteva evincere, fra le altre cose, dalla cerimonia di apertura dei Giochi olimpici di Pechino nel 2008.
Nel tripudio delle luci, dei rulli di tamburi e degli spettacoli pirotecnici in cui si è celebrata la cerimonia rammemoratrice, al resto del mondo, dell’esclusività della civiltà cinese e delle sue conquiste culturali, veniva a palesarsi proprio un gigantesco globo terreste fluttuante al centro dello stadio. L’immagine significativa di un mondo in sospensione attorno al quale volteggiavano alcuni ginnasti, quasi a volerne rimarcare il possesso. Emblematico anche il momento in cui le squadre nazionali – esclusa la Grecia – accedevano allo stadio olimpico non assecondando l’ordine (eurocentico) costituito dall’alfabeto latino, bensì quello in cui sono scritti gli ideogrammi, stabilito dal numero dei tratti richiesti. Tutte scelte certamente pertinenti ma anche altamente simboliche. Fra i vari spettacoli, certamente immancabile è stato il riferimento al tai chi, una sorta di sintesi delle discipline cinesi maggiormente diffuse in Occidente e propedeutico – pensiamo solo al feng shui – alle questioni ecologiche.
Durante la cerimonia le tematiche relative all’inquinamento e alle speranze per il futuro sono state espresse da bambini con zaini da scolari, che hanno dipinto di azzurro la bianca sabbia del mondo1. Ma proprio questi riferimenti forse lasciavano intuire un’autonomia di vedute anche in questo campo.
Ora, venendo all’attualizzazione di queste premesse in occasione del vertice di Copenaghen sul clima, diciamo che anche in questo settore, il nuovo Celeste Impero non sembra essere poi tanto supino ed accondiscendente ai diktat impostigli dall’Occidente. E benché inizialmente avesse mostrato una certa disponibilità al negoziato, affermando di voler giocare un ruolo costruttivo, il summit ha visto raffreddare il recente idillio apparentemente raggiunto durante l’incontro avvenuto fra Obama e Hu Jintao nella città proibita.
La Cina ha accusando i paesi occidentali di aver voltato le spalle al “Protocollo di Kyoto” facendosi portavoce dei paesi in via di sviluppo. Tant’è che uno dei commenti trapelati sulla stampa cinese nei confronti della bozza d’accordo avanzata dalla Danimarca è stato quello di ritenerla un segreto “occidentale”, finalizzato a rubare ai poveri per dare ai ricchi. Sempre secondo gli osservatori cinesi, il testo prevedrebbe una riduzione delle emissioni pro capite entro il 2050, a sfavore dei paesi in via di sviluppo. Un fatto che limiterebbe l’industrializzazione degli stessi2. Il vertice che ha visto la Cina alla guida del G77 e spalleggiata da India, Brasile e Sudafrica, è stato un braccio di ferro con il fronte dei paesi sviluppati e gli Stati Uniti. Xie Zhenhua, capo della delegazione negoziatrice cinese, ha sostanzialmente affermato che i paesi sviluppati devono portare ad una drastica riduzione delle emissioni, conforme ai requisiti fissati nella road map di Bali, di almeno il 25-40 % entro il 2020. Una situazione d’impasse si è verificata allorché Xie ha affermato che Pechino potrebbe dimezzare le emissioni entro il 2050, di fronte ad un equivalente prova di buona volontà da parte degli Stati Uniti, come presupposto di un eventuale accordo. Che alla fine si è raggiunto in extremis con l’intervento di Obama, il quale dopo l’incontro tête-à-tête con il Premier cinese Wen Jiabao, ha rilasciato una promessa di riduzione del 17% di emissioni carboniche per il 2020 rispetto al 2005, raggiungendo l’obiettivo di limitare a due gradi il riscaldamento climatico. Tuttavia da questo confronto, di fatto, la Cina risulta essere l’unico paese ad uscire trionfante dal vertice di Copenaghen, fissando altresì un nuovo traguardo: quello della candidatura alla leadership di un multipolarismo ambientale oltre che geopolitico.
Il suo protagonismo anche in questo settore non fa altro che aumentare la sua influenza e il suo peso sullo sfondo delle relazioni internazionali, procedenti di pari passo con la sua propensione all’assimilazione che è assoluta e onnifagocitante.
Già nel passato essa ha sinizzato tutto: religioni e culture eterogenee fra loro quali il buddhismo, l’islam e il materialismo ateo così come dinastie turche, mancesi, etc., ma altresì la scienza occidentale portata da quei “gesuiti euclidei” cantati da Battiato e rappresentati da Matteo Ricci, per non parlare della più recente fase maoista o della recentissima mao-capitalista. A rigor del vero la Cina ha saputo realizzare delle sintesi anche sublimi, sebbene non abbia mai voluto riconoscere pienamente l’apporto di influenze estranee alla sua cultura. La differenza sostanziale fra oggi e ieri sta piuttosto nel fatto che, mentre in passato la Cina ha perfino eretto una Muraglia per tenere lontani i barbari, oggi è essa a sconfinare e la sua egemonia vuole essere planetaria. La sua longa manus si estende dall’Africa al Sud America. Inoltre, sembra insediare tutta la regione eurasiatica. Analisti militari russi parlano di espansione cinese nell’Oriente siberiano. La Mongolia n’è in pratica quasi alla mercé. E al momento sembra che abbia addirittura individuato nel porto del Piero, in Grecia, lo sbocco delle sue merci verso il grande mercato europeo3 . Per inciso è di questi giorni la notizia della vendita della casa automobilistica svedese “Volvo”, già americana, alla cinese “Geely”4. Nemmeno l’Asia Centrale sfugge alle mire degli oligarchi rossi, tanto che costituisce la testa di ponte della penetrazione cinese. Hu Jintao, è stato recentemente in Turkmenistan dove ha inaugurato il gasdotto che raggiungerà la regione cinese dello Xinjiang. Curioso è altresì il fatto che, qualche giorno prima in Kazakhstan, al cospetto del Presidente, Nursultan Nazarbayev, l’erede del Grande Timoniere aveva formalizzato una proposta in cui, oltre alla parte economica chiedeva di espandere le sinergie nell’ambito umanistico e culturale fra i due paesi. Leggendo questo fatto in chiave storica sembra quasi che dietro tale passo si celi, da parte della Cina, la volontà di prendersi una rivincita – ovviamente non militare – di quella battaglia del Talas ( 751), che vanificò le mire espansionistiche dei Tang sull’Asia Centrale, allorché la coalizione sino-turca scioltasi nel corso dello scontro fu sconfitta dalle forze abbasidi, facendo entrare la regione nell’orbita islamica anziché in quella cinese. Una Rivincita, dunque, che vuole essere anche culturale. Ed è sintomatico che promotore di tale cooperazione sino-kazaka sia un Istituto dedicato al fondatore della religione forse più autoctona ed “etnica” che la Cina abbia conosciuto: il confucianesimo, o forse per meglio dire, la sua riedizione in versione attuale. Chissà che questa non sia la prossima mossa dei Nuovi Tang anche sullo scacchiere internazionale.
Ermanno Visintainer