Poco sappiamo del fenomeno del jihadismo femminile in Africa, che riguarda migliaia di donne rimaste vittime dell’estremismo violento. Un nuovo libro del giornalista Marco Cochi pubblicato da Start InSight (scaricabile gratuitamente a questo link) cerca di far luce sul complesso argomento.
Cochi, che già ha pubblicato altri due saggi sull’evoluzione della minaccia del terrorismo islamista in Africa ed è analista de “Il Nodo di Gordio” e dell’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo (ReaCT), ha indagato sui motivi e le modalità con cui le donne vengono arruolate nei due principali gruppi jihadisti africani e l’impatto che tale coinvolgimento ha prodotto sulle loro vite e le loro famiglie.
Per introdurre l’argomento, l’autore si richiama alla Russia zarista, ricordando il ruolo chiave che nel XIX secolo alcune donne hanno avuto nelle organizzazioni estremiste violente di quel Paese. Tra tutte, la rivoluzionaria anarchica Vera Ivanovna Zasulich, la prima donna processata per terrorismo, che il 24 gennaio 1878 attentò alla vita del tirannico governatore di San Pietroburgo, il generale Fëdor Fëdorovic Trepov.
Nel testo è evidenziato che le dinamiche di genere, di sottomissione e di subordinazione all’interno delle famiglie e delle comunità di appartenenza contribuiscono al reclutamento di figure femminili all’interno del gruppo estremista somalo al-Shabaab e di quello nigeriano Boko Haram. Tuttavia, emerge anche la sussistenza di motivazioni politiche e ideologiche.
Le donne attratte dalle due organizzazioni islamiste hanno deciso di donare le loro vite all’ideologia salafita e sebbene non siano direttamente impegnate sul campo di battaglia, svolgono ruoli determinanti per il supporto del gruppo. Tra queste ci sono spie, staffette e addette al reclutamento, oppure impiegate in mansioni più pratiche come cuoca o lavandaia, che per la sopravvivenza di un gruppo militante sono comunque importanti. Senza contare, che le donne forniscono un’ottima copertura sia quando agiscono individualmente sia in gruppo.
Molteplici, spiega Cochi, sono le motivazioni e le aspirazioni che spingono queste giovani e talvolta giovanissime ad aderire al jihad, alcune indirette come la manipolazione, la sottomissione oppure la disinformazione, ma altre più immediate che trovano riscontro in un reale desiderio di impegno armato o ancor più di indottrinamento religioso.
Nelle prime pagine del libro è ricordato come i leader dei gruppi estremisti africani hanno spesso sottolineato nei loro comunicati l’importanza del ruolo delle donne come mogli e madri, determinanti per crescere i bambini secondo i dettami dell’islam radicale. Un altra delle chiavi di lettura del fenomeno è racchiusa nel fatto che spesso diventare estremiste può essere considerata una forma di emancipazione, che rende alle donne più facile staccarsi dalle famiglie d’origine, che in Africa sono in gran parte strutturate sull’autorità patriarcale.
Nella ricostruzione del fenomeno, è purtroppo ricordato come molte di queste donne sono state vittime di molteplici stupri e di trattamenti brutali da parte degli estremisti islamici. Alcune delle giovani reclutate sono riuscite a fuggire e hanno potuto raccontare la propria storia e quella delle loro compagne di sventura.
Storie drammatiche intrise di dolore, sofferenza, ripetuti abusi sessuali di gruppo e di continui maltrattamenti, mentre molte delle reduci hanno raccontato di essere state ripetutamente costrette a fare uso di droghe, come il khat e il bugizi. Un’amara realtà per chi ha creduto che entrare a far parte di un gruppo jihadista rappresentasse una forma di riscatto sociale e liberazione. Invece, molte di queste giovani donne sono state trasformate in schiave del sesso e anche costrette a sposare più uomini.
Un altro aspetto inquietante che caratterizza il fenomeno è insito nelle difficoltà di reinserimento sociale che incontrano le donne rese schiave da Boko Haram, le quali sono riuscite a fuggire oppure sono state liberate grazie ad operazioni militari condotte dall’esercito nigeriano. Per queste ragazze è difficile riprendere la quotidianità e molte hanno bisogno di essere protette perché spesso vengono rifiutate o cacciate dai villaggi a cui si avvicinano per chiedere aiuto, a causa dello stigma associato alla natura degli abusi subiti.
Solo per essere state in contatto con Boko Haram, molte persone le avvertono contaminate dalla brutalità del gruppo. Tutto questo comporta l’ostracismo sociale e di conseguenza anche seri problemi a trovare un marito, rendendole vulnerabili alle aggressioni sessuali e amplificandone le condizioni di disagio. Senza contare, che una volta prese in consegna dalle autorità nigeriane, molte di loro sono rimaste deluse dal trattamento che gli è stato riservato.
Nella seconda parte, il volume descrive anche la figura di alcune militanti di spicco di al-Shabaab, una tra tutte la convertita britannica Samantha Louise Lewthwaite, conosciuta anche come la “vedova bianca”. Un sopranome che origina dal suo matrimonio con Abdullah Shaheed Jamal, nome di guerra di Germaine Maurice Lindsay, uno dei quattro kamikaze di al-Qaeda, che il 7 luglio 2005 seminarono morte e terrore a Londra.
Dopo la scomparsa del marito, Samantha ha riempito le cronache dei giornali inglesi che la descrivono come la terrorista più ricercata del mondo, tanto da diventare una dei protagonisti di “World’s Most Wanted”, la docuserie andata in onda la scorsa estate su Netflix. Una vita “spericolata” segnata da quattro figli, tre mariti jihadisti e un’interminabile latitanza, descritta con dovizia di particolari nelle ultime pagine del libro.