Il 24 febbraio 2022, all’aprirsi dei telegiornali del mattino, l’opinione pubblica europea ha udito la voce concitata degli annunciatori che davano la notizia dell’inizio delle operazioni militari sul teatro ucraino da parte delle truppe della Federazione Russa. Un fiume di inchiostro, fisico ed elettronico, ha subito invaso ogni possibile canale di comunicazione creando un palco mediatico mondiale sul quale sono prestamente saliti tutti coloro che “sono qualcuno” in tutti i campi. Politici e giornalisti di ogni livello, diplomatici, militari in servizio e in pensione, storici ed esperti di relazioni internazionali, economisti, esperti di social media, alti prelati, pacifisti, financo qualche vecchio arnese della guerra fredda.
Questo esercito di informatori e di opinionisti ha prodotto tutte le domande, ha formulato tutte le opinioni, ha messo in risalto tutti dubbi e lumeggiato tutte le risposte possibili. Non è il caso di fare spallucce perché non si tratta di problema dappoco. C’è in gioco molto di più che un semplice esercizio intellettuale per vincere il premio per la migliore interpretazione. La posta in gioco è il tipo di risposta che verrà data a Putin, che sarà tanto più efficace quanto più corretta sarà stata l’interpretazione delle sue motivazioni e la valutazione profonda delle sue intenzioni e dei mezzi che ha a disposizione. Le relazioni internazionali infatti, con l’intrecciarsi incessante di grande strategia e di tanto in tanto anche di guerra, sono prima di tutto il luogo in cui una nazione mette sul tavolo tutto ciò che ha in termini di risorse materiali, psicologiche, morali e intellettuali. È palese che il risultato di questo colossale sforzo sarà tanto migliore quanto più le classi dirigenti nazionali saranno in grado di valutare preliminarmente le motivazioni e gli obiettivi autentici della controparte e specularmente i propri. Tutto ciò richiede capacità ermeneutiche di altissimo livello basate su un difficile lavoro intellettuale di interpretazione delle quantità materiali, morali e psicologiche in gioco. Nei paesi che vantano le migliori tradizioni nella gestione delle relazioni internazionali operano naturalmente servizi di intelligence che si dedicano a tempo pieno alla raccolta di dati e informazioni e che sfornano analisi aggiornate, ma alla fine nulla può sostituire la capacità di sintesi di un gruppo ristretto di supremi decisori che nei momenti critici si assumono per tutti la responsabilità di dire al paese la strada da seguire.
Ermeneutica di una guerra, ovvero l’interpretazione della mossa putiniana di apertura.
Vediamo come le classi dirigenti occidentali hanno finora affrontato il “problema ermeneutico”, l’apprezzamento della situazione e l’interpretazione delle mosse iniziali di Putin. Iniziali, in quanto la guerra è nel pieno del suo svolgimento e bisogna accettare l’idea che le possibilità di soluzione del conflitto siano ancora molte[1].
Prima interpretazione: la via ultra – razionale della Game theory.
Un primo filone interpretativo si rifà alla Game Theory. I sacerdoti della teoria dei giochi devoti della strategy as bargaining, della strategia vista come un gigantesco e complicatissimo processo negoziale, hanno cercato fino all’ultimo istante una interpretazione razionale alle mosse del despota russo. Vi hanno letto una strategia della minaccia che avrebbe potuto benissimo avere successo e costringere il Governo ucraino alle dimissioni.[2] Intendiamoci, la teoria dei giochi è uno strumento intellettuale e concettuale di indiscutibile valore interpretativo e didattico; costituisce un vero e proprio linguaggio specialistico tramite il quale analisti, militari, economisti e politici comunicano, si intendono e decidono. La teoria dei giochi ha dimostrato la sua efficacia in molti casi in cui le situazioni erano complesse, il tempo per decidere scarso e i tavoli affollati di portatori di interessi e di informazioni. È interessante notare che nel caso di specie che stiamo esaminando molti autorevoli analisti avevano individuato un caso paradigmatico di applicazione della strategia della coercizione: un crescendo di minacce, di atti dimostrativi, di provocazioni e di aggressioni limitate, associato a massicce dosi di disinformazione e propaganda avrebbe persuaso il governo ucraino e gli alleati occidentali a fare sostanziali concessioni. I servizi di intelligence occidentali, per ristabilire la parità informativa, facevano filtrare nelle settimane precedenti l’invasione precise notizie sui piani operativi dei comandi russi. Non mancavano le evidenze della concentrazione delle forze ai confini tra Russia e Ucraina, eppure la convinzione dei responsabili politici occidentali rimase fermamente ancorata all’ipotesi più “ottimistica”, rafforzata anziché resa più incerta dal fatto che era sempre possibile attribuire a disinformazione quelle notizie che suonavano così sgradite nelle capitali dell’Europa occidentale.
La linea interpretativa che abbiamo brevemente illustrato appare molto gradita ai media e anche a molti politici di basso e medio livello. Offre l’opportunità di attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica attraverso un linguaggio oggettivamente affascinante, quello della teoria dei giochi e delle teorie del negoziato. Fornisce l’impressione che, in fondo, anche le più gravi crisi si possano gestire utilizzando un sapere oggettivo, difficile certo, patrimonio di specialisti certo, ma comunque a disposizione dei supremi direttori della politica estera degli Stati in causa. Tutto ciò appare in fondo rassicurante ma non ha dimostrato di essere vero o meglio, sempre vero. Il problema che la game theory si porta “dentro” sta nel fatto che la traduzione del problema politico in un problema matematico permette di individuare una strategia (una successione di mosse e contromosse) che offra un accettabile pay off e … che sono davvero pochi i casi in cui si possa dimostrare che una soluzione matematica non esiste. Ciò induce a pensare che una soluzione accettabile esista sempre e che basti volerla per averla. A rifletterci bene, si tratta dell’errore che commettono, in buona fede, molti simpatizzanti per il pacifismo di matrice etica oltre che molti politici, ingenui o in malafede che siano. A dispetto infatti di tutti i tecnicismi e gli strumenti teorici e informativi disponibili ad entrambe le parti … la guerra è scoppiata. È pertanto molto difficile accettare l’idea che la guerra sia scoppiata per un difetto di analisi degli obiettivi e delle strategie o per un blocco dei canali informativi. Ci deve essere dell’altro.
Seconda interpretazione – La via politica delle relazioni internazionali
Una seconda linea interpretativa, non banale anzi serissima, è quella più propriamente politica, prediletta da molti specialisti di teoria delle relazioni internazionali e da politici di peso, generalmente di area progressista e riformista[3]. Secondo questa linea ermeneutica il despota russo starebbe riportando all’indietro le lancette dell’orologio del mondo moderno e cercherebbe di imporre criteri e comportamenti novecenteschi a un mondo civilizzato che si è ormai emancipato dai vecchi schemi. Si tratta di una tesi molto apprezzata dalle grandi reti televisive internazionali e prestamente adottata da personaggi popolari e opinion makers. Citiamo, per tutti, il professor Romano Prodi che, appena iniziate le ostilità, ha accusato Putin di essere un dinosauro delle relazioni internazionali, uno che nella sua azione politica “usa addirittura la guerra, come si faceva nel novecento”. Il problema è quello del destino del multilateralismo, figlio legittimo delle società aperte nate in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale. Uno splendido interprete di questa linea è il professor Parsi, docente di relazioni internazionali alla Università cattolica di Milano. Mi prendo la libertà di utilizzare il suo pensiero come archetipo di questa linea interpretativa e pertanto mi accingo a citarlo. Il prof. Parsi, nell’introduzione del suo Il posto della guerra e il costo della libertà[4] così scrive:” la questione fondamentale sollevata dall’aggressione russa all’Ucraina – che è pure un’esplicita aggressione all’Occidente democratico e alla sua leadership – è che l’allargamento della pratica del multilateralismo, che è stata possibile solo nel quadro dell’egemonia dell’Occidente democratico, non può avvenire a scapito della democrazia e della sua tutela. Se la centralità dell’Occidente democratico venisse meno, il futuro del multilateralismo – del metodo e delle istituzioni multilaterali – sarebbe compromesso”.
Con spirito lungimirante e lucido il professor Parsi, non a caso ufficiale della riserva della Marina Militare, invita l’opinione pubblica occidentale a essere pronta a battersi, dopo aver indicato – e siamo davvero al punto cruciale dell’intera questione – le ragioni etiche e politiche per le quali è indispensabile farlo. Dice Parsi: “E’ di fronte a tutto questo che ripensare la guerra diventa un esercizio etico ancor prima che politico. Tutti auspichiamo che l’orrore della guerra venga risparmiato a noi e alle future generazioni, ma c’è una domanda tanto spaventosa quanto ineludibile che dobbiamo porci: per che cosa siamo disposti a combattere, a morire, a uccidere?”. Il testo di Vittorio Emanuele Parsi restituisce chiaramente il senso di questo modello interpretativo: siamo in presenza di un attacco al multilateralismo e alle società aperte, una conquista delle democrazie occidentali da preservare ad ogni costo e per la quale dovremo essere disposti a impugnare le armi e combattere una nuova guerra europea. Dovremo essere disposti a batterci altrimenti, lo dice con una bella immagine, “la strategia dell’opossum” non paga in politica internazionale. Chi si finge morto, in realtà è già morto. Tutto bene, dunque? Correttamente individuata, la minaccia politica viene giudicata gravissima, intollerabile, e pertanto si suona la diana di fronte al despota russo che per primo ha impugnato le armi. Sembra che l’autore, lungo tutto il suo pregevole lavoro, abbia cercato ogni appiglio per richiamare alla mente del lettore, che giustamente immagina sempre più angosciato di fronte all’incalzare degli eventi, l’antico concetto della guerra giusta, della guerra difensiva, della guerra in difesa della civiltà degli uomini minacciata dai barbari.
A pag. 85 al lavoro di interpretazione dei dati di fatto si aggiunge un elemento nuovo: sembra che l’Autore voglia offrire una via d’uscita possibile, una soluzione politica che potrebbe evitare l’incubo di una guerra europea generalizzata. Dice il professor Parsi richiamando dapprima con parole addolcite il rischio di uno scontro armato “Lasciare perdere è un’espressione colloquiale che rischia di trarre sovente in inganno. “Lasciare” in politica internazionale è troppo spesso equivalente a “perdere”. Implica la scelta di rinunciare a battersi, lasciando appunto il campo all’avversario. “Tenere il punto” comporta inevitabilmente il rischio di un innalzamento della tensione, la possibilità – remota ma non per questo irrealistica – di uno scontro. A questo punto del saggio l’autore sembra introdurre, a malincuore e con molta cautela ma con parole univoche, la possibilità di uno scontro armato. Poi però si affretta a diluire il colpo introducendo una probabilità condizionata, legando cioè la possibilità di uno scontro armato in Europa alla “variabile Taiwan”: nel caso in cui gli Stati Uniti, “potenza riequilibratrice d’oltremare” non riuscissero a moderare la potenza cinese e dovessero intervenire direttamente in Estremo Oriente, allora le possibilità di Putin in Ucraina diventerebbero sempre più concrete. Il lettore si tranquillizza, immaginando che la capacità statunitense di imporre l’altolà alla Cina non verrà meno e di conseguenza la Russia putiniana avrà contro di sé l’intero potenziale industriale ed economico dell’Occidente democratico e liberale e con ciò si disporrà di un deterrente credibile. Basterà avere pazienza e la furia barbarica russa si esaurirà per stanchezza, si troverà un accomodamento più o meno ipocritamente onorevole e ciascuno tornerà alle proprie pacifiche occupazioni.
Il ragionamento del professor Parsi, naturalmente, non è certamente così ingenuo dal fermarsi a queste considerazioni. Egli propone anche una pars construens che suggerisce una via percorribile, difficile ma percorribile, per allontanare la prospettiva di una guerra generalizzata (convenzionale) in Europa e anche per allontanare la prospettiva di una lunga stagione di crisi economica (nei nostri paesi) conseguente a una politica di pesante riarmo convenzionale. Così continua il testo di Emanuele Parsi: La sola alternativa sta nel non ritrovarsi in una condizione di gioco a somma zero, in cui qualcuno vince e qualcuno simmetricamente perde. Sta nel poter uscire da quella logica dell’equilibrio che abbiamo visto essere stata – proprio nella storia europea – il meccanismo a cui si è fatto ricorso per scongiurare il verificarsi di quelle condizioni che avrebbero reso inevitabile una guerra: per contrastare il sorgere di una minacciosa egemonia, il successo delle ambizioni imperiali di una grande potenza in ascesa, la modifica violenta dello status quo. Ma abbiamo visto come tutto ciò abbia ogni volta generato, prima o poi, proprio quella guerra che si voleva scongiurare. Il monito è sempre quello: il solo modo per allontanare la prospettiva della guerra è favorire quella evoluzione politica, istituzionale ed economica che possa far percepire ogni parte non minacciosa rispetto all’altra.
L’analisi e la proposta del professor Parsi sono entrambe accattivanti e consolatorie. Partono dal non detto che noi europei occidentali[5] abbiamo raggiunto uno stadio di alta civiltà politica e di capacità di convivenza che ci permette di considerare almeno raggiungibile il traguardo della fine della violenza interstatale. E inoltre, che abbiamo individuato il modo per raggiungere questo traguardo attraverso lo sviluppo delle relazioni multilaterali. Infine, last but not least, inglobano la convinzione che il nostro sviluppo civile sarà così attrattivo da convincere le parti migliori delle società che ancora vivono sotto regimi autocratici a vietare alle loro leaderships il ricorso agli strumenti politici violenti, tipici del secolo breve[6]. Ecco chiuso, apparentemente, il cerchio. Abbiamo individuato nelle logiche dell’equilibrio le cause profonde delle politiche aggressive e delle guerre europee. Abbiamo individuato nuove politiche capaci di spostare la competizione dalla logica dell’equilibrio di potenza alla logica dell’interdipendenza – la democrazia liberale, il libero mercato e le relazioni multilaterali sempre più fitte. Abbiamo individuato, dopo circa duemilacinquecento anni di storia europea il modo di passare da un gioco a zero sum (competiamo, e uno vince quello che l’altro perde) a un gioco di tipo win win (competiamo, e alla fine ci guadagniamo entrambi).
Il pensiero di Vittorio Emanuele Parsi quindi, mentre invita a battersi se necessario, indica contemporaneamente una prospettiva, difficile ma percorribile e in fondo ottimista, per arrivare a sperare che la ferita che Putin ha inferto a noi tutti potrà essere col tempo rimarginata e che la ragione possa tornare a prevalere. L’interpretazione dei fatti proposta dal professor Parsi ha l’evidente vantaggio che la sua verifica possa essere spostata nel tempo e che non pone limiti stringenti al perdurare dell’ottimismo. Ma è portatrice anche di evidenti difficoltà. La prima è quella di partire da un chiaro senso di superiorità del pensiero occidentale sulla cultura politica e sulla stessa dimensione antropologica che viene attribuita ai russi e quindi di peccare di unilateralismo. La seconda è di scordare che, data l’anatomia attuale della politica interna russa e la sua storia, essa non possa che presupporre un regime change nella Federazione russa. Se la prima suona davvero offensiva, la seconda è altamente improbabile, essendo la Russia una nazione abituata da tempo immemore all’autocrazia[7].
Queste idee affascinanti e consolatorie che il professor Parsi ha esposto in modo così accattivante nel suo ultimo lavoro rappresentano la Sacra Scrittura alla quale le classi dirigenti europee dalla fine della guerra fredda hanno giurato fedeltà e dalla quale traggono legittimità e consenso dai loro popoli. Lungi da essere vuota propaganda o favole per adulti, queste idee poggiano su realtà impressionanti: l’Europa, da Lisbona a Tallinn, conta il 10% circa della popolazione mondiale, produce il 20% del Pil mondiale e spende per il welfare dei suoi cittadini la metà di quanto per questa voce si spende complessivamente nel mondo. Non si tratta perciò di vuote chiacchere o di propaganda; le cose stanno effettivamente così, come queste scarne ma eloquenti cifre dicono a tutti e suggeriscono alle opinioni pubbliche e alle loro leadership la più ovvia delle domande, che dovrebbe essere la seguente.
Che bisogno c’è di uscire da questo sentiero di relativa virtù, di benessere ineguale ma reale, di sicurezza collettiva che finalmente l’Europa ha imboccato? Quali questioni europee sono tanto gravi e divisive da non poter essere ricondotte e risolte col negoziato in questo quadro di riferimento? Dissoltesi le grandi, arcigne ideologie del secolo breve che cosa impedisce di inserire la Federazione Russa e gli stati che sono sorti[8] dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica in un sistema di sicurezza comune e in un mercato aperto? E ancora: che bisogno ha la Federazione Russa di tentare un colpo militare in Ucraina? Minerali strategici per la transizione energetica? No, nonostante le notizie che descrivono l’Ucraina piena di Litio e Tecnezio il motivo non è palesemente questo: non c’è nulla che oggidì non possa essere liberamente acquistato, venduto e scambiato nel mercato aperto della società globalizzata. E quindi anche questa seconda linea interpretativa chiaramente delude e conduce verso una aporia. Semplicemente, non riusciamo a darci una risposta soddisfacente, magari sgradita ma esauriente. Si ha la frustrante sensazione di aver formulato tutte le domande giuste col tono giusto. Eppure, sembra di parlare a un muro che, ostinato, tace mentre la guerra prosegue.
Terza interpretazione: la minaccia della espansione della Nato (dal punto di vista di Putin).
È la più facile delle interpretazioni, prontamente adottata dai simpatizzanti nostrani di Putin: la Nato era sul punto di assorbire l’Ucraina e Putin ha dovuto di necessità precederla. In generale, sostengono i putiniani, la dirigenza russa ha dovuto e voluto dare uno stop vigoroso all’azione espansiva dell’Alleanza atlantica. Ebbene, queste motivazioni geopolitiche che sono state addotte per rendere ragione dell’azione russa[9] sono, nonostante le apparenze, prive di logica e di buon senso strategico. Non c’è nessuna motivazione strategica che possa anche solo lontanamente rendere attraente per la Nato l’idea di mettere a rischio l’equilibrio politico nelle grandi pianure dell’Europa Centrale così cariche di storia e di violenza etnica da poco sopitasi. Nessun vantaggio strategico verrebbe alla Federazione Russa dal riprendere il controllo di un territorio grande il doppio della Francia con quaranta milioni di abitanti ostili[10] anche se l’aspirazione ucraina a far parte della comunità europea e della Nato era nota da tempo ed è probabilmente vero che Boris Johnson e il Presidente Biden avevano fatto promesse in questo senso.
Bisogna sforzarsi di evitare le facili strade del pensiero semplificatorio e procedere nel ragionamento con passo prudente, senza fretta. Qualcuno ha trovato una similitudine tra l’operazione russa in Ucraina e l’occupazione della Norvegia durante la Seconda guerra mondiale da parte delle truppe tedesche. In entrambi i casi, si dice da parte di chi palesemente è in cattiva fede o confonde la luna per una forma di grana, si sarebbe trattato di tagliare l’erba sotto i piedi all’avversario anticipandone le mosse. Nulla di tutto questo. Non vi è alcuna somiglianza con l’occupazione tedesca della Norvegia del 1940 allorché lo stato maggiore della Wehrmacht ingaggiò e vinse sul filo di lana la gara di velocità con le forze franco – inglesi[11]; occupare manu militari un paese così grande come l’Ucraina per sottrarlo alla Nato è invece cosa che non ha semplicemente senso alcuno perché proprio alla Nato l’idea di incorporare nell’alleanza anche l’Ucraina non piace affatto.
Se poi le due organizzazioni occidentali non hanno trattato il dossier con la prudenza che è di regola in questi casi, ragion di più per Putin di sospettare che gli fosse stata tesa una trappola[12]. Le ragioni del disinteresse della Nato sono sostanzialmente due. Da una parte, la Nato è già stabilmente insediata ai confini della Federazione Russa da quando vi sono stati ammessi gli Stati Baltici. Dall’altra è facile, per chi mastichi un po’ di storia militare e pensiero strategico, capire che la Nato non ha nessun reale interesse ad allargare il suo perimetro difensivo con l’inclusione di nuove frontiere terrestri da mettere nel conto della pianificazione strategica e militare. Soprattutto nel caso dell’Ucraina, paese che all’Alleanza ha molto da chiedere e ben poco da offrire in termini di risorse economiche e militari. In una prospettiva ampia di strategia di teatro, la Nato ha infatti fin dall’inizio dovuto perseguire due obiettivi. Il primo consisteva (e tutt’ora consiste) in una convincente difesa convenzionale del socio europeo più importante economicamente e politicamente (la Germania Occidentale, quando c’era e in misura minore la Germania unita dal 1990) in cambio della sua rinuncia a una forza nucleare autonoma. Il secondo obiettivo, contraddittorio rispetto al primo, era quello della ricerca della profondità strategica[13].
Vale la pena di soffermarsi un po’ su questi due punti, la cui importanza e la cui contraddittorietà è costantemente sottovalutata dai media e talvolta anche dalla letteratura specializzata. La Germania occidentale ridiventò fin dalla metà degli anni 60 il cuore pulsante dell’economia europea contribuendo così a formare un sistema tripolare che aveva un corpo centrale negli USA e due aree periferiche da garantire, l’una in Europa occidentale e l’altra in Giappone. Mentre la difesa convenzionale del Giappone era un problema squisitamente aeronavale per il quale gli USA nel Pacifico erano perfettamente attrezzati, la difesa convenzionale della Germania Occidentale presentava difficoltà insolubili. Uno schema di difesa in profondità, ancor di più uno schema di difesa elastica, avrebbe lasciato le città tedesche esposte al ricatto politico della devastazione da parte delle truppe del Patto di Varsavia. Un prezzo politico che la Nato non poteva pagare: sarebbe stato pretendere troppo da una opinione pubblica che fino alla fine degli anni 70 contava ancora molti reduci della Seconda guerra mondiale e dei suoi orrori. Il rischio, concretissimo, era che la Germania occidentale si staccasse dalla Nato, perseguisse una politica neutralista e cercasse un accordo separato con l’Unione Sovietica per garantire al meglio la tranquillità dei suoi cittadini e ridurre i fattori di rischio dei suoi investimenti industriali sul territorio nazionale.[14]Quindi, politicamente, era indispensabile adottare uno schema di difesa convenzionale rigida, a cordone, che avrebbe garantito ai tedeschi l’immediato impegno di tutta la Nato a difendere il terreno (tedesco), non solo a sfiancare l’avversario. Ma una difesa a cordone lungo tutta la frontiera terrestre della Nato avrebbe comportato investimenti militari astronomici e avrebbe comunque lasciato all’aggressore il modo di concentrare le forze corazzate in un punto di sua scelta e di sferrare il colpo di maglio iniziale in condizioni di assoluta superiorità (relativa).[15]
La profondità strategica è stata per contro una buona carta che la Nato ha potuto mettere sul tavolo dagli anni 80 del Novecento quando, con la scomparsa di Francisco Franco, svanì l’imbarazzo politico che derivava dall’ammettere in una alleanza militare di nazioni libere e democratiche un vecchio arnese filofascista della prima metà del 900. A quel punto si saldava il sistema marittimo atlantico con una piattaforma terrestre lunga abbastanza da poter condurre le colonne corazzate del Patto di Varsavia al punto di “sfinimento strategico”, troppo lontano dalle basi di partenza, con una logistica sempre più difficile, continuamente contrastata da forze leggere e da guerriglieri. Non va dimenticata la lezione appresa nella carne e nel sangue dallo stato maggiore della Wehrmacht sul decadimento “in ragione quadratica” dell’efficienza delle forze avanzanti rispetto alla distanza percorsa. Il decadimento operativo delle forze corazzate, questa è la lezione della II GM, procede infatti col quadrato della distanza. Se è vero che le forze corazzate moderne hanno dalla loro i risultati di decenni di progressi tecnici e studi organizzativi è altrettanto vero che questi progressi sono controbilanciati dalla oggettiva complessità dei moderni MBT e IFCV, poco numerosi perché molto costosi, in grado di operare efficacemente solo se ben muniti di sofisticate suites elettroniche, se protetti da un efficace controllo dello spazio aereo e dello spettro elettromagnetico e se dotati di contromisure contro una varietà di sistemi anticarro altamente specializzati quali i missili controcarro, le loitering ammunitions, e i proiettili di artiglieria dotati di sensori di ricerca con capacità di colpire bersagli in movimento.
Riprendendo il filo, per quanto attiene a un argomento assai utilizzato dai portavoce di Putin e che trova vasta eco anche nel dibattito in Occidente, quello della minaccia che la Nato porterebbe alla sicurezza russa con l’ingresso dell’Ucraina, è facile dimostrare che semmai è vero l’esatto contrario[16].
Paradossalmente, si potrebbe dire che con l’adesione alla Nato dei paesi dell’ex Patto di Varsavia l’Alleanza atlantica ha risolto solo il primo dei due problemi citati, avendo sì circondato la Germania di territori in grado di assorbire il primo colpo, ma al prezzo di aver singolarmente complicato il proprio problema strategico. Dal momento che l’Europa ha la forma di un imbuto che si allarga progressivamente muovendosi da Ovest a Est, ora la Nato si trova a dover presidiare un territorio troppo vasto, con una linea di contatto quattro volte più lunga rispetto agli anni precedenti l’unificazione tedesca e avendo incorporato alleati non sempre pienamente convinti della nuova situazione strategica (Ungheria) oppure deboli sul piano industriale e militare talché l’impegno politico a difenderli costerebbe troppo sul piano militare[17]. Il tutto con buona pace di coloro che, mal consigliati mentre sono seduti su altissime cattedre, parlano di Nato che “abbaia ai confini” della Federazione Russa. Persino la recente adesione di Svezia e Finlandia all’Alleanza rappresenta un aggravio logistico e organizzativo non indifferente per le strutture della Nato senza offrire in cambio alcun vero vantaggio militare, anzi offrendo alla Federazione Russa due nuovi comodi obiettivi politici e militari[18].
Ultima interpretazione, letterario – psicologistica.
Una vasta platea di commentatori anche autorevoli in cerca di una facile popolarità mediatica ha optato per una interpretazione letterario -psicologistica: un despota, nel solco della secolare tradizione di autocrazia imperiale russa, dopo aver consolidato per vent’anni il suo potere con spietata astuzia asiatica, sentendo avvicinarsi la fine della sua vita terrena [19] ha voluto mostrare al mondo la sua feroce determinazione e lasciare la sua orma nella storia russa. I seguaci di questa posizione psicologistica rendono più intrigante la loro tesi citando fonti di informazione che ogni giorno o quasi riferiscono di sedicenti medici della CIA che diagnosticano a Putin le più terribili sindromi basandosi sulle riprese televisive fatte peraltro dalla TV di stato russa.[20] Si auspica una fine della guerra “per morte fisica del despota”, un evento che possa miracolosamente rimettere sui giusti binari il treno impazzito che sta solcando le pianure dell’est Europa. Si tratta di una interpretazione delle motivazioni russe degna della penna di Shakespeare ma che non regge se calata nella realtà politica e militare di questo ultimo anno. La citiamo solo a titolo di esempio di come sia possibile guadagnare popolarità e ascolti snocciolando racconti che non costano alcuna fatica intellettuale.
Riassumendo:
Alla fine di questa prima fase di analisi dobbiamo sopportare una certa frustrazione per aver dovuto scartare una serie di interpretazioni che suonano consolatorie per l’opinione pubblica e sono state adottate a livelli autorevoli della politica e dell’establishment. Benché (apparentemente) razionali, non reggono a una analisi dei fatti e producono inferenze che contraddicono evidenze a tutti note e che conducono a prospettive implausibili. Si tratta di aporèmi, sillogismi dialettici che conducono a contraddizioni logiche oppure ad assurdità empiriche contrarie al buon senso tecnico, strategico oppure storico. Bisogna battere dunque altre strade.
La via interpretativa delle costanti storiche
Riprendiamo dunque il filo del nostro ragionamento e rifacciamoci la domanda cruciale: quali sono i motivi politici e strategici che hanno indotto la suprema dirigenza russa a una operazione così rischiosa? E immediatamente dopo: perché è vitale porsi questa domanda e perché è vitale darsi la risposta giusta? Andiamo con ordine.
È vitale giungere a comprendere le ragioni profonde che animano la suprema dirigenza russa perché da una comprensione corretta dipenderà l’efficacia del tipo di risposta che l’Occidente sarà chiamato a dare, essendo tutti ben consci, inoltre, che non potrà in alcun modo esimersi dal darla. L’unica opzione che all’Occidente è negata è infatti la neutralità, il dire alla Russia “prego si accomodi, noi facciamo finta di non vedere”[21]. In questo caso, l’intero sistema di sicurezza collettiva sorto dopo la fine della guerra fredda, anzi a ben pensarci addirittura alla fine delle grandi guerre del 900 europeo, collasserebbe in una specie di caos cosmico primordiale. I paesi ex sovietici riprenderebbero una completa libertà d’azione e la libertà di azione politica delle medie potenze europee si tradurrebbe senza fallo in una competizione feroce, fatta di gruppi etnici differenti che avanzano progetti politici diversi e contrastanti sui medesimi territori. Una regressione alla politica hobbesiana del tutti contro tutti che consentirebbe alla Russia stessa, ma forse anche alla Germania e alla Francia, di ricostituire un nucleo di stati clientes in una atmosfera politica da fine 800. Un disastro politico troppo grave per essere anche solo preso in considerazione.
Ci rimane però la possibilità, per rispondere alle cruciali domande, di ricorrere a qualcuna di quelle antiche formule empiriche che spiegano i conflitti umani fin da quando si ha contezza delle forme della civiltà. Una di queste, forse la più antica, è la paura.
Le antiche formule empiriche. La prima: la paura hobbesiana
La paura è un ventre dal quale sono nate innumerevoli guerre nel corso dei secoli. Valga per tutti l’esempio della guerra del Peloponneso, la conosciamo tutti, che nacque da quella che moderni pensatori hanno chiamato “trappola di Tucidide”. Una situazione in cui due grandi potenze perfettamente autosufficienti in termini di accesso alle risorse economiche, di saldezza della classe dirigente insediata ai vertici dello Stato, di padronanza dei mezzi militari necessari ad assicurare la sicurezza, cominciano a valutare con animo sempre più preoccupato le intenzioni dell’altra. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, spiano l’occasione propizia per assestare all’altra un colpo di maglio che la cancelli dall’equazione politica o per lo meno la ricacci ai bassi gradini della scala. Una delle due intravede il “momento buono” e inizia le ostilità; l’altra, confidando nei propri mezzi e nelle proprie risorse accetta la sfida ed inizia così un ciclo militare mai breve, sfibrante, spesso inframezzato da lunghe tregue usate per riprendere fiato e che quasi inevitabilmente si conclude con la perdita per entrambi del ruolo di protagonista sulla ribalta della storia. Accadde così a Sparta e Atene che dopo essersi reciprocamente dissanguate furono incorporate nell’orbita macedone. Non a caso la guerra del Peloponneso, in quanto conflitto tra una talassocrazia democratica e una geocrazia autoritaria, è stata studiata a lungo nelle accademie angloamericane. Anche il conflitto secolare tra l’impero bizantino e l’impero persiano è un esempio paradigmatico della trappola di Tucidide. Le due grandi potenze, dopo essersi combattute per qualche secolo senza che nessuno dei due riportasse la vittoria decisiva, furono entrambe soppiantate nelle sterminate distese del Medio Oriente dal terzo incomodo, la nascente potenza araba.
Le antiche formule empiriche. La seconda: la guerra preventiva
Una seconda antica formula è quella che regola la guerra preventiva[22]. La guerra preventiva è la modalità tipica con cui una Potenza Dominante fa i conti con una Potenza Emergente nella fase in cui la dominante detiene ancora la superiorità di tutti i mezzi economici, geostrategici, tecnologici e militari e può quindi nutrire la ragionevole certezza di prevalere in un conflitto. In quell’intervallo di tempo in cui la superiorità della potenza dominante è ancora assicurata, la potenza emergente sta accumulando i fattori di forza a un rateo accelerato e tutto lascia prevedere che presto o tardi avrà raggiunto un livello tale per cui la certezza della potenza dominante di prevalere sarà messa in dubbio. In questi casi – frequentissimi nella storia del mondo – il meccanismo si sviluppa secondo ritmi e modalità che sono meccaniche, automatiche e interamente basate sulla forza. La potenza dominante aggredirà la potenza emergente “prima” che quest’ultima possa accedere a quel livello minimo di forza complessiva che renderà dubbia e incerta la vittoria della dominante. Un corollario importante di questa antica legge è che la vittoria della potenza dominante sulla potenza emergente è sempre – a meno dell’insorgere di circostanze eccezionali – certa proprio perché essa detiene tutti i fattori di forza e li metterà in atto “prima” che il risultato diventi incerto[23]. Le circostanze eccezionali che possono rendere il risultato incerto oppure addirittura opposto al dettato dalla razionalità sono molto rare e sono normalmente legate a un decadimento della capacità complessiva della classe dirigente della potenza dominante di valutare gli elementi profondi della situazione oppure, ma la causa di fondo è la stessa, allo sfruttamento più sapiente da parte della potenza emergente di fattori contingenti (di solito nuove tecnologie o nuove dottrine di impiego delle forze) che consentano una vittoria significativa, rapida, nella fase iniziale del conflitto, prima che i superiori fattori di forza della potenza dominante possano dispiegarsi[24].
Le antiche formule empiriche. La terza: la rivincita degli sconfitti ovvero il revisionismo imperiale
La terza antica modalità, l’ultima che ci resta da esaminare, è quella che a mio avviso si sta concretizzando nell’attuale conflitto tra la Federazione Russa e l’Ucraina. È precisamente quella che si chiama revisionismo imperiale ma che un tragico greco, Sofocle nell’Aiace, avrebbe raccontato come desiderio di vendetta di un eroe umiliato. Bisogna scrutare con l’aiuto dell’immaginazione e di buone letture nelle dinamiche di potenza e di relazioni politiche tipiche di un Impero.
Un Impero per essere tale deve possedere una serie di attributi che la Storia raramente rende tutti contemporaneamente disponibili. Deve possedere una base territoriale sufficientemente ampia per sostenerne economicamente le ambizioni e lo stesso dicasi della base demografica. Gli imperi sono sempre pertanto multinazionali e multietnici e la techné politiké più importante delle loro classi dirigenti consiste proprio nel far vivere concordemente, non necessariamente pacificamente ma evitando le esiziali guerre civili, le diverse etnie[25].
Gli imperi, sia quelli basati sulla talassocrazia che quelli geocratici, puntano alla sicurezza preclusiva: il modello ideale di sicurezza imperiale è quello di un controllo delle fonti di forza (energetiche, demografiche, tecnologico – scientifiche, geografiche[26] e naturalmente militari) tali da rendere impensabile qualsiasi aggressione. Va da sé che nei tempi recenti un impero non può fare a meno di un arsenale nucleare almeno sufficiente alla deterrenza. Tutto ciò non significa che un impero non possa perdere una guerra, intesa nel senso più classico di un ciclo di combattimenti più o meno lungo che si concluda con una pace. Ma l’impero, ogni impero, una volta persa una guerra e firmato un trattato di pace inizia illico et immediate una politica revisionista (si intende una politica che ha per obiettivo la revisione del trattato di pace appenafirmato) e la prosegue anche per decenni, fintantoché non è riuscito a ribaltarne i termini. Può permettersi guerre anche lunghissime in quanto lo status di impero, con l’insieme di territorio, popolazione e risorse, ne garantisce la sopravvivenza anche di fronte a mutilazioni gravi, che farebbero collassare uno Stato “normale”. La Repubblica popolare cinese, per fare solo un esempio fra i mille possibili, in quanto erede legittima dell’impero cinese ha questioni aperte con la Federazione russa, in quanto erede legittima dell’impero zarista, dal 1654 a proposito del controllo dei distretti siberiani. L’impero zarista, mentre Napoleone scrutava dal suo cannocchiale le torri del Cremlino avvolte dalle fiamme, stava combattendo una pesante e costosa guerra con l’impero persiano per il controllo delle regioni del Caucaso. Le guerre combattute dall’esercito britannico, trasportato dalla Royal Navy, sono tanto numerose che gli storici ne hanno perso il conto[27].
La conclusione, la lezione da imparare, è che un impero che sia e che si senta tale, allorché per un incidente della Storia [28] perde una provincia, una porzione di quella che considera la sua base territoriale, non può arretrare di fronte a nulla pur di riprenderla e di ristabilire la sua autorità su di essa. Ne va della stessa identità imperiale, primo collante di ogni impero. Non è mia intenzione in questa sede esaminare le dinamiche della nascita e del declino degli imperi; mi limito qui a tratteggiarne brevemente gli aspetti più noti e comunemente accettati per sviluppare analogie che consentano uno sforzo di analisi razionale delle cause profonde della crisi russo ucraina e pertanto dei suoi possibili sviluppi militari.
Un impero è caratterizzato sempre da un certo grado di invulnerabilità. Se si tratta di un impero marittimo insulare, tipo il Regno Unito, la sua base demografica e territoriale può essere esigua ma è resa invulnerabile dal mare e dalla flotta. Se si tratta di un impero terrestre è di solito reso invulnerabile dalla sua stessa dimensione e da una postura militare arcigna, tipica della ricerca della sicurezza preclusiva. Tutti gli imperi inoltre devono poter disporre di una struttura finanziaria solida e ampia: un impero è sempre in grado, se vuole essere tale, di non essere ricattabile sul piano finanziario e a tal fine deve disporre di imponenti riserve valutarie (oro, monete forti) sempre accettate sul mercato finanziario mondiale. Infine, ultimo fattore ma assolutamente essenziale, un impero per essere tale deve avere un centro politico forte e deciso, in grado di garantire la coesione delle sue componenti anche fisicamente lontane e/o culturalmente disomogenee. Infatti, tra le svariate possibili minacce alla sua sicurezza la più intollerabile non è quella esterna quanto quella che proviene dalla rivolta, dalla ribellione di una sua provincia. Ogni cedimento di fronte a una ribellione interna, indipendentemente dal valore politico ed economico della provincia ribelle, può innescare un effetto domino tale da vanificare qualunque capacità di repressione. Pertanto, la reazione del centro politico di un impero alla secessione di una provincia o anche solo alla sua minaccia sarà (anche questa volta) meccanica, automatica e interamente basata sulla forza.
A seconda delle circostanze la reazione del centro politico e militare dell’impero può essere più o meno dilazionata nel tempo ma è sempre e comunque certa e inevitabile. Nel caso in cui non fosse possibile per l’impero passare direttamente alla fase della repressione della ribellione l’intervallo temporale sarà utilizzato per una pressante e minacciosa campagna di propaganda. Pesanti richiami, che il centro politico dell’impero indirizzerà alla provincia in rivolta e alle altre province consorelle che magari si fossero messe in ansioso ascolto sperando di cogliere indizi di debolezza, per avvertire tutti che in questo campo non si possono nutrire speranze di passarla liscia.
È di solare evidenza che tutte, nessuna esclusa, queste condizioni preliminari si ritrovano nella presente congiuntura politico – militare che si sta consumando nelle pianure dell’Ucraina orientale e meridionale. A cominciare dalla colossale provvista di mezzi finanziari che la Banca Centrale della Federazione russa iniziò a mettere al sicuro circa un anno prima del fatale 24 febbraio 2022[29], proseguendo con la tambureggiante propaganda focalizzata sulla presenza di elementi filonazisti nel governo di Kiev, la propaganda armata degli “uomini verdi” in Crimea prima e nel Donbass poi, le colossali manovre condotte in Russia e Bielorussia nei giorni immediatamente precedenti l’invasione (un classico di tutte queste operazioni, che ricorda la concentrazione delle forze della Wermacht nella primavera del 1941 per lanciare l’operazione Barbarossa). Le lezioni della storia erano pienamente concordi e coerenti nell’indicare lo sbocco della crisi. Tutti i segnali erano dunque presenti, tutte le condizioni mature, tutte le premesse strategiche erano ben allineate sui tavoli.
Forse un solo particolare, un dettaglio, ma importante, abbisogna di un surplus di attenzione che lo inquadri nella teoria generale che andiamo elaborando. Mi riferisco alla dichiarazione del Presidente Biden che “nessun soldato americano avrebbe versato il suo sangue per l’Ucraina” e che è sembrata un disco verde all’invasione. Un altro indizio che a Putin era stata tesa una trappola che avrebbe dovuto forse renderlo più cauto. Forse il presidente russo aveva equivocato il segnale, forse pensava che il presidente Biden intendesse avvertirlo che non sarebbe andato molto più in là di forti proteste e qualche sanzione. Il sentirsi preso in giro, o la frustrazione di non aver saputo apprezzare correttamente la situazione potrebbe aver reso Putin furioso e magari incauto nelle sue mosse[30].
Le modalità di svolgimento del conflitto come variabile dipendente delle premesse.
Se quindi accettiamo di aver penetrato le motivazioni di fondo del conflitto di cui stiamo dibattendo, se siamo arrivati al letto duro del fiume dopo aver scavato tutta la sabbia morbida e ora la vanga si piega, se insomma siamo soddisfatti per aver finalmente risposto alla domanda “perché la Federazione russa ha dato fuoco alle polveri il 24 febbraio dell’anno di grazia 2022” rimane da capire – cosa per noi di enorme importanza – con quali modalità esso si svilupperà dopo il primo anno cui abbiamo più o meno sgomenti assistito. Dobbiamo infatti per coerenza intellettuale supporre che, data l’ampia varietà di opzioni strategiche e politiche di cui il governo russo dispone, anche le soluzioni militari scelte, dal livello strategico a quello operativo e persino a livello tattico siano e saranno coerenti con le motivazioni di fondo che abbiamo la presunzione di aver compreso ed esposto.
Prima di tentare una previsione plausibile bisogna tener presente che con questo secondo quesito ci spostiamo da un campo ben studiato, quello della dinamica dei conflitti, alla valutazione di una situazione che, per quanto sembri semplice nelle sue linee essenziali, rimane comunque una contingenza avvolta dalle nebbie dell’incertezza, come i contorni di una casa avvolta nella bruma umida e fredda di una sera novembrina. Ma non si può sottrarsi e quindi, tra mille cautele, proviamo.
Obiettivo primario e secondario della dirigenza russa
Io ritengo che esista un obiettivo secondario[31] della dirigenza russa in questa fase politico – strategica (quello primario rimane il riflesso pavloviano della difesa dell’identità imperiale della Russia), secondario ma tutt’altro che insignificante. Ritengo che questo obiettivo, estremamente allettante, sia la disgregazione dell’embrione di unità politica europea che si è andato faticosamente formando in questi ultimi anni, dopo la caduta del muro di Berlino. La caduta del muro dell’89 ha causato la corsa degli ex satelliti dell’URSS a ripararsi sotto l’ombrello di un nuovo sistema di sicurezza internazionale e ovviamente ciò ha fatto lievitare il peso politico della Germania[32] che funge da grande investitore economico, da grande promotore di tecnologie, da garante istituzionale attraverso le strutture dell’Unione Europea.
Non c’è da dubitare infatti che una grande galassia economica, istituzionale e scientifica prima o poi tenderà a coagularsi anche come entità politico – strategica[33]. Questo processo di condensazione di potere politico, simile all’addensarsi del gas di una nebulosa in stelle e pianeti[34], può essere più o meno ritardato da eventi esogeni o endogeni, dall’oscillazione delle maree politiche, dall’interferenza di agenti di influenza o di Servizi segreti, ma ha una sua forza autonoma che nessuno davvero può pensare di arrestare a meno che considerazioni politiche superiori non facciano deviare il processo verso altre direzioni.
In Europa, dopo il Grande Allargamento degli anni 90, la Germania unificata con il supporto francese era, e rimane, il candidato naturale a costituire il nucleo di quel processo di condensazione cui abbiamo fatto cenno poco fa. Ma il processo è naturaliter tortuoso, lungo, complesso e gravido di conseguenze. Se andasse in porto, se superasse la fase confederativa attuale e attuasse una progressiva solidificazione anche a livello istituzionale, se quote crescenti di sovranità nazionale venissero cedute a una autorità europea federale, ciò significherebbe nientemeno che la creazione di una nuova Grande Potenza Mondiale. Circa quattrocento milioni di abitanti, una lunghissima e ben attrezzata sponda dell’oceano Atlantico, il controllo del Mediterraneo e dei mari settentrionali, una tecnologia di primissimo ordine, una popolazione istruita e via enumerando sono per l’appunto i fattori critici di potenza di cui l’Unione Europea potrebbe disporre. Mancherebbero solo le fonti inesauribili di energia e di materie prime di cui dispongono la Federazione Russa, in evidente e irresistibile declino dopo la fine della Guerra Fredda e il continente africano, ultima area davvero contendibile[35] per il controllo strategico delle rotte marittime e delle risorse naturali.
È persino troppo ovvio pensare che la nascita di una Grande Potenza Mondiale sia un processo che non possa avvenire pacificamente, nel tripudio della buona volontà degli europei e negli osanna degli arcangeli che celebrano l’avvento dell’era della pace, dei diritti e della prosperità. Una nuova Grande Potenza Mondiale implica di necessità la sottrazione di quote di potenza agli attuali detentori, quali essi siano, anche se al momento concordi alleati, e comunque viene inevitabilmente percepita come una minaccia con cui in un futuro vicino o lontano bisognerà fare i conti. Quindi, non solo la Federazione Russa, rebus sic stantibus, ha qualche ragione di sentirsi obiettivo di una futura espansione di potenza europea alla ricerca di fonti energetiche strategicamente sicure[36] ma persino gli Stati Uniti guardano senza alcuna simpatia al formarsi di una nuova potenza atlantica che si affacci su questo cruciale oceano dalla Normandia a Gibilterra[37]. Affascinanti nuove prospettive: abbiamo la fortuna o sfortuna[38] di vivere durante uno dei grandi nodi strategici, politici e militari della Storia, paragonabile per importanza alla caduta dell’Impero romano, alla dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America e alle due guerre mondiali che si sono combattute nel nostro martoriato continente.
Un necessario surplus di lavoro interpretativo
Ribadisco, per fornire il massimo di chiarezza a chi mi ha seguito fin qui, che lo scopo di questo lavoro è limitato e consiste nel valutare la possibilità e la plausibilità di una “svolta nucleare” nelle operazioni militari in corso in Ucraina. Se si tratta di costruire una teoria (parziale) di questa guerra è necessario che la teoria, possibilmente semplice, contenga e spieghi tutti gli elementi rilevanti che abbiamo a disposizione. Mi riferisco a due fatti, cui abbiamo fatto brevemente cenno, apparentemente minori, ma per quanto ci riguarda assai importanti.
Il primo è l’entusiasmo con il quale una potenza da decenni in declino ma portatrice di una grande tradizione, la Gran Bretagna, è accorsa in aiuto dell’Ucraina aggredita. Non solo è prontamente accorsa al primo fragore di cannoni ma fin dalla rivoluzione arancione ha fornito assistenza militare alle malcerte forze armate ucraine garantendo formazione tecnica e dottrinaria agli alti ufficiali e agli istruttori ancora ingessati nella tradizione sovietica. L’osmosi ucraina nel mondo occidentale è cominciata molto prima del 24 febbraio 2022 [39]. L’altro fatto di grande interesse è la dichiarazione del presidente Biden che nessun soldato americano sarebbe stato mandato a combattere sul suolo ucraino, fatta pochi giorni prima del fatale 24 febbraio e che, inutile negarlo, suonava come una dichiarazione di non interferenza nelle operazioni militari russe. In senso stretto il presidente Biden ha mantenuto la parola data ma fin da subito l’appoggio USA è stato determinante per sostenere la resistenza ucraina e far fallire il colpo di mano dei russi che mirava a decapitare in pochi giorni la leadership ucraina e a sostituirla con un governo che un anziano magnate italiano definì “di brave persone”, mettendo così il mondo intero di fronte al fatto compiuto.
È appena il caso di ricordare che la Federazione Russa era uno dei garanti dell’integrità territoriale ucraina nel Memorandum di Budapest del 1994, in cambio della rinuncia alla quota di armi nucleari che all’Ucraina sarebbero toccate come eredità dell’arsenale sovietico e che ne avrebbero fatto la terza potenza nucleare del mondo, prima di Cina, Francia e Gran Bretagna. Un impero può permettersi di queste licenze, non è il caso di scandalizzarsi.
Come inserire questi due episodi nella teoria della guerra ucraina che stiamo cercando di mettere assieme? Come una dimostrazione che le potenze angloamericane non sono delle sitting ducks in questo insieme di circostanze storiche e strategiche ma che hanno obiettivi politici, compiti strategici e leaderships che sembrano ben decise a sfruttare le opportunità. Le democrazie hanno dimostrato, fin da quando entrarono nella Seconda guerra mondiale, che sanno comportarsi con spregiudicatezza e con durezza nelle competizioni interstatali al pari di nazioni rette da sistemi dittatoriali o autoritari.
Nel caso della guerra ucraina le conclusioni che questi due fatti suggeriscono sono, a mio parere, due. Il primo consiste nel fatto che la Federazione Russa è ancora un avversario su scala planetaria, uno strategic competitor, ma viene ora trattata come un avversario con il quale, a differenza che ai tempi della Guerra Fredda, si può correre il rischio di incrociare le spade sul campo. Si tratta di un completo rovesciamento di paradigma rispetto ai tempi antecedenti la caduta del muro.
Fino al fatidico novembre 1989 l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia contavano più di quattrocentocinquanta milioni di abitanti e rappresentavano economie enormi sebbene assai poco efficienti. Il Patto di Varsavia poteva contare su due assets strategici imponenti che poteva giocare a piacimento e secondo convenienza su qualsiasi tavolo negoziale: il potente arsenale nucleare e una forza convenzionale di prim’ordine, imponente per forze in linea e per scorte, credibile per dottrina, sostenuta da solidi elementi ideologici e da una invidiata disciplina politica con la quale minacciava strategicamente e credibilmente un’Europa occidentale piccola e priva di profondità strategica. Ora le posizioni si sono ribaltate: la Federazione Russa può giocare unicamente la carta di una minaccia nucleare strategica che, da sola, perde molta della sua credibilità. Ha una popolazione di circa centotrenta milioni di abitanti e una economia delle dimensioni di quella spagnola. È ancora lo stato sovrano più grande al mondo ma paradossalmente le sue stesse dimensioni sono diventate un fattore di debolezza e di vulnerabilità. Le sue temute forze corazzate che hanno sgretolato la Wermacht ora sono apparse in tutti gli schermi del mondo impantanate in lunghe file, pachidermi immobilizzati dal fango e da una logistica insufficiente in una campagna militare condotta nel prato di fronte a casa. In un paese del quale le forze di invasione parlano persino la lingua, nel quale annoverano parenti e compagni di studi, le forze regolari russe si sono trovate in difficoltà nel reclutare una base di informatori e una efficace quinta colonna.
Il secondo fatto saliente è in una qualche misura corollario del primo e consiste nel fatto che USA e Gran Bretagna hanno colto la possibilità offertagli dalla sorte di dissanguare la residua potenza russa impantanandola in una guerra del Vietnam a parti invertite. Ricordate la situazione della guerra del Vietnam quando URSS e Cina sfruttavano il formidabile vantaggio politico di poter inchiodare l’avversario americano semplicemente fornendo armi[40], istruttori e una enorme retrovia dove i bravi soldati nordvietnamiti potevano addestrarsi, riposarsi e curarsi? Oggi, nelle pianure dell’Europa centrale, avviene l’inverso. Al misero costo di due miliardi di dollari al mese di aiuti militari forniti peraltro, seppure in misura assai disuguale dalle venti nazioni più ricche al mondo, le potenze anglosassoni hanno costretto la Federazione russa a strozzare lo sviluppo tecnologico della propria industria per chissà quanto tempo, hanno esposto la reputazione delle sue forze armate a una figuraccia mondiale, e hanno costretto il Cremlino a una mobilitazione su vasta scala, se non proprio generale, che creerà evidenti spaccature politiche al suo interno tra una popolazione urbana di etnia russa relativamente poco disturbata e le etnie siberiane e caucasiche che forniscono il maggior numero di richiamati[41].
Fin che le cose rimangono su questo piano le potenze anglosassoni godranno di straordinarie rendite politiche mentre la Russia si dissangua e la Cina incassa i dividendi di una posizione privilegiata.[42]
Ricapitolo per chiarezza gli elementi di debolezza della posizione complessiva russa nel conflitto in corso: 1) la posizione di impero indebolito della Russia di oggi che le sottrae il “tempo senza fine”, tradizionale risorsa strategica di ogni impero, al pari dello spazio[43], 2) le possibili complicazioni politiche interne legate alla questione delle nazionalità e 3) la prospettiva di una guerra assai lunga e logorante contro una coalizione occidentale che dispone di una economia circa cento volte maggiore. Credo che siano questi tre elementi a comporre la chiave per una previsione non banale dell’andamento futuro delle operazioni militari in Ucraina. Il tempo e le masse mobilitabili non sono più risorse illimitate a disposizione dell’Impero, le temute forze armate convenzionali non sono più alimentabili dall’immenso serbatoio demografico tradizionale[44], la stabilità politica e il consenso interno non è più graniticamente sicuro come ai tempi dell’URSS. Tutto è cambiato, in peggio, per la Russia putiniana tranne il suo prezioso arsenale nucleare.
Le opzioni militari
Dopo un anno esatto dall’inizio delle operazioni militari è noto a tutti che, fallito il “calcio alla porta iniziale”[45]l’Alto Comando russo ha dovuto riformulare piani, obiettivi, direttrici e dottrine di impiego delle forze pesanti. Il drammatico turn over dei vertici militari testimonia di quanto sia stato faticoso e doloroso il travaglio subito dai russi e quanto grande sia stato lo choc per il mancato successo iniziale.
Il punto è che una forza iniziale di invasione di circa 190 /200.000 uomini non era sufficiente per garantire il successo di una operazione di invasione di un paese grande il doppio della Francia a meno che il calcio iniziale alla porta non si fosse dimostrato bastevole a far crollare la volontà di resistenza dell’avversario. L’alto comando russo, al di là di ogni inadeguatezza dovuta a cattiva intelligence, ha iniziato l’Operazione Speciale con un solo colpo in canna a disposizione. Fallito quello ha dovuto reinventare tutto e, onore al merito, tra mille difficoltà sembra che stiano recuperando. Chi ama lo studio della storia delle campagne militari russe non si stupirà troppo di queste fasi iniziali. Accadde lo stesso in Afghanistan dove l’allora Armata Rossa iniziò le operazioni antiguerriglia in quelle disperate montagne con gli stessi schemi dottrinari studiati per le operazioni in Europa contro le forze Nato. Ne sorsero difficoltà inenarrabili che però vennero superate e portarono alla realizzazione, verso la fine di una guerra che fu tragica sotto tutti i punti di vista, di cicli operativi caratterizzati da brillanti risultati dopo profonde riorganizzazioni delle dottrine di impiego e delle modalità di addestramento.
Accadrà presumibilmente la stessa cosa anche questa volta, in Ucraina: i russi raccoglieranno, anzi nel momento in cui scrivo questa nota, sono già a buon punto sulla strada di mettere in campo altri 300, 400.000 uomini. Mettere sul campo 300, 400.000 uomini, tratti da una riserva “mobilitabile” è del tutto utopistico se non si dispone di quadri già formati e disponibili, specialmente i comandanti di minori unità. Poi è necessario formare gli istruttori, poi addestrare gli uomini, vestirli, equipaggiarli, amalgamare le unità, infondere il giusto spirito combattivo e la coscienza della loro forza per creare una disciplina non riluttante, verificare il tutto in una serie di complesse manovre e poi mandarli in zona di operazioni dopo aver predisposto la necessaria logistica, gli obiettivi, i piani etc. etc.
I russi sono un popolo forte e tenace e che sa pensare in grande e personalmente non ho dubbi che ci riusciranno. Ma, come suggeriva Churchill, quando si entra in guerra anche dall’altra parte c’è un uomo che escogita piani, mobilita forze, utilizza al meglio il materiale che ha ed è convinto di poter vincere e non c’è dubbio che in Ucraina ci sono molti uomini così. Questa metafora che, lo ammetto, gronda retorica, per dire che anche l’Esercito ucraino ha un notevole potenziale di crescita. I flussi di materiali militari dall’occidente sono notevoli anche se i materiali di provenienza diversa creeranno difficoltà logistiche non da poco. I canali di comunicazione con l’Occidente sono tutti aperti a parte il corridoio ungherese, il sostegno alla causa della resistenza ucraina è dappertutto elevato e poi, alla fine, basta che l’Occidente metta al lavoro davvero la sua macchina industriale per inondare le brigate ucraine di carri e pezzi di artiglieria. Ora non accade perché la macchina industriale occidentale sta lavorando ancora a ritmi quasi da dividends of peace, il periodo in cui sembrava di poter stornare al settore civile i colossali budgets militari occidentali, ma se si passa a una fase di guerra di materiali non ci sarà partita.
Sull’altro piatto della bilancia, a favore della Federazione russa di Putin, sta il fatto che mentre l’industria russa sembra essersi messa a produrre di gran lena i materiali militari di cui ha bisogno, le forze armate ucraine dipendono interamente dalla solidarietà, che in politica e in strategia è sinonimo esclusivamente di interesse nazionale e di bilancio costi / benefici, degli alleati occidentali. In altri termini, l’Occidente pomperà armi e munizioni in Ucraina finché riterrà che la bilancia politica costi / benefici sarà favorevole. Lo sanno tutti, americani, inglesi, ucraini e russi, naturalmente. Accade sempre così, è “necessario” che accada così. È accaduta la stessa cosa, a parti invertite, quando negli anni 70 l’America di Nixon e Kissinger separò gli interessi sovietici da quelli cinesi con l’apertura alla Cina e l’appoggio comunista ai valorosi combattenti vietnamiti cessò. I russi poi sono tutt’altro che isolati nel mondo: molti importanti paesi dell’ex Terzo mondo, ricchi di risorse e di capacità, sono schierati per varie ragioni e con diverso livello di coinvolgimento dalla loro parte. L’Ucraina ha un serbatoio di uomini arruolabili tutt’altro che inesauribile benché il morale sia altissimo e persino i russofoni si siano schierati decisamente a favore dell’indipendenza; al momento in cui scrivo questa nota l’Esercito, per prepararsi all’ipotesi di un conflitto lungo, sta arruolando giovani di 16 e 17 anni. Le forze armate russe, per concludere un breve e certo incompleto elenco, dopo un inizio francamente umiliante hanno rapidamente adeguato la dottrina operativa e gli obiettivi alla nuova situazione, a riprova che una grande tradizione di pensiero e di capacità militare non scompare nel nulla.
Il presidente Putin negli ultimi tempi sembra aver spostato in alto il livello dei suoi obiettivi di guerra. Recentemente, di concerto col vicepresidente del Consiglio di sicurezza Medvedev, ha evocato la riconquista del territorio fino “ai confini tradizionali storici dell’URSS”, cioè Lettonia, Lituania, Estonia, Ucraina e Moldavia, niente di meno. Dopo un inizio francamente “domestico”, da affare interno, in cui sembrava che i russi andassero a liberare l’Ucraina, una terra da sempre russa resa per errore indipendente da Lenin, da un governo nazista (sic!), ora si parla di scontro di civiltà, di superiorità morale della tradizione russa su un Occidente decadente, di autodifesa esistenziale. Tutti slogans che ricordano sinistramente i discorsi disperati di Hitler e Goebbels dopo Stalingrado[46]. E’ evidente che in questa babele comunicativa si affastellano motivi puramente propagandistici con quelli che sono i veri obiettivi politici e militari della guerra. Come provare a distinguerli?
Credo che la chiave ermeneutica stia nella asimmetria degli obiettivi di guerra delle due principali attori dello scontro. Se l’obiettivo degli ucraini è quello, tutto sommato semplice e facilmente comprensibile da chiunque, di salvare la propria indipendenza nazionale (indipendenza nazionale, non necessariamente il 100% del territorio), quello di Putin è decisamente più complesso, difficile e rischioso. Se l’Ucraina perderà una porzione del territorio nazionale dopo una guerra condotta con coraggio, determinazione e molte vittorie sul campo, avrà sostanzialmente vinto la guerra. Ma se Putin non riconquisterà la provincia perduta, reintegrandola nella sfera di influenza diretta avrà perso la guerra, anche se riannetterà gli oblast di Donetsk e Lugansk. L’asimmetria degli obiettivi di guerra non è un concetto immediatamente familiare alla pubblica opinione, che tende a formarsi un giudizio di vittoria o sconfitta su criteri molto più immediate di territori persi o presi. Per capirci, si può rifarsi al conflitto noto in Europa come Guerra di Secessione americana. Se la Confederazione degli stati del Sud di Jefferson fosse riuscita ad ottenere una pace anche riconsegnando, chessò, il North e il South Carolina all’Unione ma mantenendo l’indipendenza politica, Jefferson avrebbe vinto la sua guerra. Specularmente, Lincoln non avrebbe potuto accontentarsi di nulla di meno che di una resa incondizionata del Sud. In ogni altro caso, Lincoln avrebbe fallito i suoi obiettivi di riunificazione politica del continente nordamericano[47].
Difficile allora sottrarsi alla domanda che prima di coricarsi molti bravi russi nell’immensità profonda di quelle pianure di certo si rivolgono, tranquillizzati dal fatto che non rischiano granate ogni notte ma certo oscuramente consapevoli che la posta in gioco per la Russia è molto alta : ma se le cose sono così drammatiche come mai non usiamo l’atomica?
Di nuovo, e per concludere, l’incertezza sembra pesare sui comandi russi molto di più che su quelli delle controparti occidentali. Non ci saranno infatti, a meno che tutti gli analisti occidentali siano caduti contemporaneamente in errore, le risorse in Russia per un terzo tentativo di offensiva condotta sulla base dei paradigmi classici della guerra convenzionale. Se la mobilitazione in corso e l’offensiva russa prevista e annunciata per marzo / aprile 2023 non dovesse portare a una chiara vittoria sul campo la tensione politica si illanguidirebbe e i vertici del Cremlino dovrebbero cominciare a pensare alla più umiliante delle soluzioni, quella di trattare una pace alle condizioni del nemico. Magari un vero Czar del 17° o 18° secolo riuscirebbe a restare in sella, ma Putin non è un vero Czar con la forza del diritto dinastico. È un autocrate, una figura politica simile a un moderno amministratore delegato che deve rendere conto dei suoi risultati. Putin non può tranquillamente abdicare al trono di tutte le Russie a favore del figlio dopo aver perso la faccia davanti al mondo e aver umiliato l’Esercito; cadrebbe e con la sua caduta ci sarebbe un colossale cambio di classe dominante.
I mezzi militari in funzione degli obiettivi politici
Ma una grande potenza come è ancora la Russia[48] ha sempre più di un obiettivo nel mirino quando inizia una impresa rischiosa come una guerra, ragion di più se si tratta di una guerra nel cuore dell’Europa. Oltre alla questione del restauro del rango imperiale, sempre essenziale sia per la politica interna che per quella internazionale, io credo che la Federazione russa stia puntando ad un ulteriore obiettivo, più strategico e meno facile da spiegare all’opinione pubblica ma non per questo meno importante. Mi riferisco all’obiettivo russo di disarmare politicamente la costituenda Unione politica europea. E inoltre credo che, in perfetta sintonia col miglior pensiero clausewitziano, saranno proprio questi due obiettivi, pesati per importanza e urgenza, a determinare modi e mezzi che la dirigenza russa sceglierà di impiegare nella guerra ucraina.
Ho già fatto cenno al problema della possibile nascita di una Grande potenza europea come minaccia strategica a lungo termine per le residue ambizioni e per l’identità imperiale russa; credo che la dirigenza russa non si farà sfuggire l’occasione offerta dalla guerra ucraina con il suo carico di difficoltà politiche e militari per tentare di cogliere questo importante obiettivo di lungo periodo. Già dalla dottrina sovietica risultava detto apertis verbis che la minaccia nucleare serviva a dividere i membri europei della Nato in diverse categorie, a seconda della loro sensibilità a questa minaccia. Ai paesi più sensibili[49] sarebbe stato riservato un atteggiamento più generoso che ai paesi più strettamente osservanti della disciplina dei blocchi.
Oggi il Cremlino potrebbe rispolverare quelle stesse dottrine e sottoporre i paesi, i singoli paesi, dell’Unione europea a uno stress test passando dalla minaccia teorica alla fase esecutiva. Il lancio di un paio di testate nucleari tattiche sull’Ucraina, paese non automaticamente protetto dall’articolo 5 del Trattato di alleanza, raggiungerebbe parecchi obiettivi politici e militari. Spaccherebbe la Nato tra paesi interventisti e fautori dell’appeasement e lo stesso accadrebbe all’Unione europea. Metterebbe l’opinione pubblica americana davanti al dilemma lacerante interventismo / neutralismo che si è sempre posto prima di ogni grande evento bellico. Renderebbe ogni governo occidentale esitante di fronte alla prospettiva di continuare nella politica di sostegno militare all’Ucraina e offrirebbe contemporaneamente all’astuto ed espertissimo ministro Lavrov la possibilità di aprire molti tavoli negoziali distinti e riservati con i diversi paesi europei. Paura e materie prime energetiche a condizioni eccezionalmente favorevoli servite contemporaneamente come pietanze dello stesso menù.
Sul piano militare un paio di testate tattiche non sarebbero certo decisive ma intanto polverizzerebbero un paio di brigate ucraine e lascerebbero la dirigenza di Kiev davanti a una prospettiva di isolamento politico che potrebbe fiaccarne definitivamente la volontà di combattere. Potrebbe persino darsi il caso di un golpe anti Zelenski a Kiev, con le famose “brave persone” evocate dal noto anziano magnate italiano, pronte a porsi nel ruolo di traghettatori della nazione ucraina nel buio dell’Ade russa.
E inoltre, un paio di testate nucleari tattiche, lanciate su un paese “protetto” dalla Nato ma non suo membro organico porrebbero ai paesi europei, specie a quelli del neo costituito gruppo di Bucarest, un serio dilemma. La questione è alquanto attuale dal momento che lo stesso Putin ha indicato l’obiettivo di ritorno ai confini storici dell’URSS. Toccasse ai Baltici o alla Moldavia, magari a tutti loro contemporaneamente, assaggiare la zampata dell’orso russo come reagirebbe la Nato? Con una guerra convenzionale che ridurrebbe quei paesi alleati, e solo loro, in macerie o quasi, oppure attiverebbe la risposta nucleare?
Io credo che uno scenario del genere sia stato già pianificato ai sommi vertici del Cremlino e, ma qui ci si avventura nell’ignoto, che il momento giusto potrebbe essere la primavera che sta per arrivare, poco prima della pianificata controffensiva russa. Diamo un nome di fantasia a questo scenario, chiamiamolo Operazione URAGANO. La prossima volta che Putin si fa riprendere nel suo ufficio, cerchiamo di dare una sbirciatina al suo tavolo da lavoro; chissà che non si intraveda una cartelletta con l’intestazione URAGANO scritta a stampatello.
[1] È un gran peccato che i filosofi abbiano perso, o stiano finora perdendo, l’occasione di far sentire la loro voce. Chi si occupa di filosofia della storia dovrebbe riflettere molto sulle attuali circostanze e verificare le teorie e i presupposti su cui questa disciplina si fonda.
[2] Un esperto come Lucio Caracciolo ha creduto fino all’ultimo istante che la strategia della minaccia sarebbe stata coronata da successo e che la guerra non sarebbe scoppiata. Lo dichiarò a un noto talk show nazionale la sera del 23 febbraio. È stato sbeffeggiato per questo, ma i suoi argomenti erano solidissimi e riconosciuti validi dalla comunità dei suoi pari. A consolazione del professor Caracciolo va detto che gli sbeffeggiatori erano soprattutto i membri della tribù dei giornalisti detti “pastonisti”, quelli che scrivono brevi pezzi sugli argomenti più vari e naturalmente i frequentatori dei socials
[3] Si tratta di un riferimento vago e incerto, me ne rendo ben conto, ma in questa breve sintesi non è d’uopo distrarre il lettore con digressioni specialistiche. Nel mondo italiano il campione rappresentativo è il professor Romano Prodi: spero di rendere superflua la esatta definizione di “progressista e riformista” utilizzando l’espediente retorico dell’antonomasia.
[4] Saggi Bompiani, 2022
[5] e tali, seppure di complemento sono considerati anche gli europei orientali, coloro che nel secolo breve erano sudditi dell’impero austro – ungarico
[6] Sono due i corollari che, derivabili per via logica dai presupposti, non appaiono affatto scontati. Il primo, che le aliquote moderne delle società ora guidate da regimi autocratici vogliano davvero seguire le linee di sviluppo occidentali. Il secondo, che sia veramente possibile scalfire l’apparato repressivo di una autocrazia senza fasi violente nelle quali gli Stati hanno dalla loro parte uomini, mezzi, addestramento e dottrine sperimentate per prevalere.
[7] Il regime change è rarissimo nelle autocrazie. Non è avvenuto neppure in Venezuela, nonostante l’impegno dell’Amministrazione americana.
[8] CSI: Comunità di Stati Indipendenti
[9] Svilupperemo in questo paragrafo il tema della supposta minaccia della Nato ai confini della Federazione Russa. Le altre motivazioni sbandierate dalla propaganda del Cremlino quali l’affermarsi di un partito nazista all’interno del sistema politico ucraino, la protezione delle minoranze russofone (e filorusse, le due categorie non coincidono come si è subito visto) sono palesemente ridicole.
[10] Io non sono in alcun modo d’accordo con coloro che pensano Putin tanto ingenuo e sprovveduto da credere che gli Ucraini lo avrebbero accolto a braccia aperte. Per quanto sgangherato possa essere un servizio di spionaggio e per quanto possa prevalere nei vertici apicali di quel difficile mestiere lo spirito dei lacché anziché dei professionisti, un simile errore non può accadere in un paese come l’Ucraina, letteralmente il giardino di casa della Russia.
[11] Allora la posta in gioco era la possibilità per l’industria tedesca di mantenere aperto il flusso di minerale svedese di ferro anche nei mesi invernali, quando il Baltico diventava impercorribile a causa dei ghiacci. La costa norvegese invece, bagnata dalla Corrente del golfo, rimane sgombra e navigabile tutto l’anno talché il materiale ferroso, imbarcato a Narvick, può arrivare ai porti tedeschi radendo la costa. Ovviamente per lo Stato maggiore Imperiale britannico la posta era proprio il poter tagliare quella via di rifornimento. L’operazione fu come noto un brillante successo tedesco che però costò, oltre a un cospicuo numero di navi, anche cinque ottime divisioni di fanteria tedesche che rimasero immobilizzate, inoperose, in Norvegia fino alla fine della guerra.
[12] Si tratta di un punto importante che riprenderò in modo più approfondito nella seconda parte di questo saggio.
[13] Questi obiettivi sono infatti conflittuali e contrastanti. Se si accetta una costosa e inefficiente difesa a cordone per raggiungere obiettivi politici di difesa di un territorio che si considera vitale allora bisogna rinunciare al vantaggio militare dato da uno schema di difesa in profondità o di difesa elastica per la quale la profondità strategica è vitale.
[14] Questo è un punto che è costantemente trascurato dai divulgatori di cose economiche e dagli esperti di relazioni internazionali. Ogni investimento industriale o finanziario di grandi dimensioni viene valutato anche sotto l’aspetto della rischiosità geopolitica e il suo valore nominale viene moltiplicato (semplifico un po’ per farmi capire) per un coefficiente compreso tra zero e uno che esprime questo fattore di rischio. Un investimento fatto nelle pianure del Sahel avrebbe probabilmente coefficiente zero o quasi, tale da azzerarne di fatto il valore. Per di più la promessa di salvaguardia perpetua da parte della Russia di una Germania neutrale, staccata dalla Nato, era il leit motiv della diplomazia sovietica dai tempi di Gromiko e si ripresenta ora praticamente identico nei discorsi di Lavrov (l’Europa non sa badare ai propri interessi, ripete continuamente il Ministro degli Esteri russo)
[15] E’ noto che l’Alleanza adottò la strategia della risposta nucleare ad una invasione convenzionale condotta con superiorità schiacciante da parte delle forze del Patto di Varsavia. Fu mascherata per pudore col nome di Risposta flessibile: si sarebbe resistito con le forze convenzionali finche fosse stato possibile, poi si sarebbe passati all’uso delle armi nucleari tattiche. Si svilupparono a tale scopo le testate nucleari miniaturizzate fino a mine nucleari trasportabili a spalla, granate nucleari per mortai e per cannoni s.r. da 106 e altri simili giocattoli.
[16] È certamente vero che il confine ucraino è a pochi minuti di volo missile da Mosca e che quindi si ripeterebbe a parti invertite la situazione della crisi cubana del 1962. Ma anche gli stati baltici sono già a distanza di non-molti minuti di volo missile da Mosca, per non parlare di Leningrado. La Federazione Russa potrebbe legittimamente esigere che in Ucraina (e negli Stati baltici) non vengano installate basi di missili balistici, così come fece l’America di Kennedy.
[17] È curioso come questa situazione riprenda lo schema del dilemma strategico in cui si trovò la Germania hitleriana allorché Mussolini annunciò l’inizio delle operazioni militari italiane il 10 giugno 1940 dal fatale balcone di Palazzo Venezia. Mentre la non belligeranza italiana bloccava nell’inazione importanti forze navali e terresti anglo francesi senza costare nulla ai tedeschi, l’inizio delle operazioni italiane vide il capovolgersi della situazione. Da quel momento i britannici si trovarono nella condizione di poter aggredire un avversario vulnerabile, riportare successi militari e politici e costringere i tedeschi a correre in suo aiuto disperdendo preziose risorse. Più o meno lo stesso accadrebbe nel caso di operazioni militari dell’alleanza atlantica in Ungheria, Romania, Bulgaria per non parlare della infinita grana (potenziale) balcanica.
[18] Pochi commentatori si rendono conto che tutti i paesi Nato di recente ingresso si aspettano di essere difesi davvero, non utilizzati come aree in cui i fanti russi si riforniscano a spese delle locali popolazioni o in cui far correre i carri russi perché si “sfiniscano”. Le distruzioni che sta subendo l’Ucraina non sarebbero accettabili dalle opinioni pubbliche dei paesi Nato, specialmente quelli più a Est, nove per la precisione, che non a caso hanno costituito il Gruppo di Bucarest per farsi meglio sentire in USA, UK, Francia e Germania.
[19] Putin ha appena compiuto settant’anni, è in perfetta forma fisica ed è sorvegliato e curato dai migliori medici del mondo. Inoltre, è noto per non aver nemmeno mai contratto il vizio dell’alcool così diffuso in Russia e che rese ridicoli gli ultimi atti politici di Eltsin.
[20] L’arte di manipolare le immagini televisive raggiunse livelli straordinari già ai tempi di Breznev e Cernienko, ben prima che le tecnologie digitali fossero diffuse e potenti come al giorno d’oggi. È noto che i due leaders vennero costretti ad apparire in pubblico in condizioni di salute che farebbero inorridire la nostra odierna sensibilità e che vennero “lasciati morire in pace” solo quando tutti gli accordi politici sulla loro successione erano ormai stati stipulati.
[21] È quello che è stato fatto con la Crimea, con la scusa che la Crimea è davvero etnicamente russa. Anche i Sudeti erano etnicamente tedeschi nel 1938 quando Hitler li rivendicò e invase la Cecoslovacchia. Era lo stesso argomento usato da Slobodan Milosevic al tempo delle guerre jugoslave degli anni 90 allorché urlava nelle piazze che “dove c’è un serbo, lì c’è Serbia”. In tutti questi casi, recenti e lontani, l’Occidente democratico ha davvero peccato per ignavia, paura, mentalità poltronista.
[22] A voler forzare la spiegazione, la prima applicazione della guerra preventiva si trova nel mito di Kronos che divora i suoi figli “prima” che diventino troppo pericolosi per il suo potere.
[23] Naturalmente i fattori che conferiscono alla potenza emergente un ritmo accelerato di sviluppo non scompaiono con una sconfitta militare, sicché si prospetta – tipicamente – una serie di sconfitte per la potenza emergente dopo le quali si ha l’inversione dei piatti della bilancia e l’assunzione del ruolo di potenza dominante. Un esempio da manuale è l’ascesa dell’Inghilterra elisabettiana a potenza navale dopo una lunga serie di sconfitte patite ad opera della potenza dominante di allora, che era la flotta olandese. Emblematica la sfilata sul Tamigi delle vittoriose navi dell’ammiraglio Troomp con una scopa fissata per dileggio sull’albero di maestra. Non molti anni dopo la Royal Navy iniziava a diventare la regina dei mari.
[24] Non è difficile vedere qui traccia del pensiero strategico che guidò l’azione della Germania, nella I e nella II Guerra mondiale e dell’impero giapponese nella II.
[25] Stalin fu a lungo Commissario del Popolo alle Nazionalità e si distinse per lungimiranza politica e per chiarezza di visione in questo delicato incarico che peraltro era ben presidiato anche ai tempi dello Czar.
[26] Si pensi alla antica ossessione dell’impero zarista per i mari caldi, gli Stretti, le rotte sempre libere dai ghiacci.
[27] La guerra di indipendenza delle 13 colonie americane presenta con tutta evidenza sia le caratteristiche della guerra preventiva che del revisionismo imperiale. Quella fu una delle poche eccezioni alle leggi granitiche che abbiamo evidenziato. E le eccezioni, in quanto rarissime, confermano per l’appunto la regola.
[28] una congiuntura sfavorevole dal punto di vista della sua leadership naturalmente. Vedi il passaggio del discorso di Putin che definì la caduta dell’URSS la più grande tragedia politica del XX secolo e forse oltre.
[29] E che fu evidenziata dal presidente Draghi in varie occasioni pubbliche. Argomento decisivo che l’opinione pubblica italiana e internazionale avrebbe potuto accettare come prova definitiva, come vero smoking gun, delle intenzioni del Cremlino ma che venne sommerso dalla ondata di emotività del sistema mediatico.
[30] Chi pensa che un leader politico – militare, quello che ad Atene si chiamava strategon, con ampia autorità di decidere e di dare ordini, sia sempre assistito da uno stuolo di consiglieri che prevengono mosse avventate e irrazionali troverebbe un qualche diletto a leggere della rabbia feroce di Hitler allorché si accorse che l’Intelligence Service lo aveva personalmente giocato nel colpo di stato che nel Regno di Jugoslavia aveva fatto cambiare posizione e alleanze a re Pietro. Hitler si era fidato della sua capacità di apprezzamento della situazione, aveva sottovalutato il giovane re e soprattutto l’Intelligence Service. Iniziò per sua decisione, presa in uno scoppio d’ira, la disgraziata campagna di Jugoslavia del 1941 che procurò grandissimi guai alla Wehrmacht disperdendo forze preziose subito prima dell’inizio dell’operazione Barbarossa, fornendo ai Britannici influenza sui Balcani e facendo crescere la leadership di Tito nella sanguinosissima guerra partigiana.
[31] Ve ne sono certamente molti altri di obiettivi in una scala di importanza via via decrescente, dalla necessità di rinsaldare il controllo politico sulle masse e sull’establishment alla opportunità di dare una sferzata alle capacità industriali tradizionalmente sonnolente dell’industria avanzata russa e via elencando. Ma, per l’appunto, sono il dito e non la luna.
[32] dell’asse carolingio franco tedesco secondo una formula che piace molto ai media
[33] Anche questo è un portato empirico – induttivo che storici e filosofi della storia hanno formulato sulla base di quanto è quasi sempre accaduto nella storia dell’uomo politicizzato, la cui vita associata è stata storicamente inquadrata in grandi comunità organizzate. Includo in questa categoria una vasta gamma di possibili forme politiche, dalle città stato greche alle signorie italiane agli imperi europei e asiatici.
[34] Questa immagine rimanda a una visione organicistica molto solidamente ancorata nella filosofia della storia. Io personalmente cerco – razionalmente – di sottrarmici ma non posso non apprezzarne la valenza euristica.
[35] Anche se già largamente ipotecata dall’influenza cinese
[36] Non era forse questo l’obiettivo delle divisioni tedesche in marcia verso il Caucaso nel 1942? Non vi è dubbio che il dittatore tedesco avesse lucidamente compreso che, una volta assicuratasi le risorse energetiche e alimentari della Russia europea, il III Reich sarebbe diventato di fatto un impero invulnerabile. Che il disegno non sia riuscito è da ascriversi alla buona sorte che talora viene elargita ai popoli, non certo alla mancanza di lucidità o di determinazione del diabolico Cancelliere.
[37] Si noti la quasi – coincidenza temporale, politicamente assai rilevante, tra l’annuncio della Repubblica Federale tedesca dello stanziamento, extra budget, di 100 miliardi di euro per l’ammodernamento delle Forze Armate e l’impegno statunitense a fornire 140 miliardi di dollari di aiuti militari alla Polonia. Una specie di telegramma Zimmermann che dopo più di un secolo è stato inviato nella direzione opposta a quella del 1917.
[38] Fortuna perché si tratta di avvenimenti di prima grandezza, sfortuna perché noi europei saremo ancora una volta, dopo il 1914 e il 1939 direttamente coinvolti più come oggetti che come soggetti del divenire storico.
[39] Tutto ciò è di estremo interesse storico e strategico in quanto segna il ritorno della Gran Bretagna alla sua tradizionale strategia nazionale dopo gli anni di incapsulamento nell’Europa comunitaria. Strategia nazionale che è stata recuperata dai faldoni impolverati e rimessa a giorno contemporaneamente alla Brexit. Essa consiste in un riorientamento in chiave eminentemente navale degli obiettivi e delle risorse, in un allineamento sempre più stretto con gli USA in vista di un recupero di influenza negli affari asiatici, nell’impegno antirusso e nell’interesse a interferire negli affari europei in una prospettiva di indebolimento della leadership continentale dominante, in questo caso l’asse franco – tedesco. Nel 1919, mentre i campi di battaglia della Somme ancora pullulavano di cadaveri delle armate francesi e inglesi alleate, Lloyd George inaugurò una linea politica filotedesca per porre ostacoli al rischio di egemonia francese ma vent’anni dopo di nuovo i britannici si opponevano alle aquile tedesche in marcia verso l’Atlantico sul suolo francese.
[40] neppure molte almeno fino alla messa in servizio attorno ad Hanoi delle batterie di missili antiaerei SAM2
[41] Chi non ricorda, anche solo per aver visto Platoon al cinema, le polemiche negli USA per il fatto che nelle risaie vietnamite strisciavano soprattutto i figli della working class e le minoranze etniche, mentre i giovani bianchi delle classi medio alte ottenevano l’esenzione iscrivendosi all’università o andando a frequentare quelle canadesi? Per inciso, Bill Clinton fu uno di quei privilegiati.
[42] Privilegiata perché l’opinione pubblica americana si può anche stufare di una guerra che rimane pur sempre pericolosa in quanto condotta contro una potenza nucleare e il big business americano potrebbe anche cominciare a valutare negativamente il rischio degli investimenti. In secondo luogo, tra Cina e Russia vale sempre la legge dell’attrito tra imperi viciniori: ciò che mette in difficoltà l’uno è sempre gradito all’altro. Alla Cina per di più questa rendita politica non costa un centesimo, anzi ci guadagna perché la Russia che deve vendere energia per vivere deve accettare il prezzo imposto dall’unico grande compratore rimasto sul mercato, appunto la Cina.
[43] Diceva Puskin che in Russia cento chilometri non sono spazio e cent’anni non sono tempo. Così la Russia percepiva sé stessa.
[44] L’obiezione che anche l’Ucraina ha subito un calo pesantissimo delle risorse demografiche (8,5 mil di profughi senza contare perdite in combattimento assai pesanti) non vale perché le condizioni per parlare di vittoria o sconfitta della Federazione Russa e della Repubblica ucraina sono fortemente asimmetriche. Per la Russia non ricondurre l’intera Ucraina nell’orbita russa significa sconfitta, per l’Ucraina conservare dopo aspra lotta una importante porzione di territorio significa vittoria. Per di più l’Occidente avrebbe un formidabile pegno negoziale da far valere per decenni. Per quanto ogni grande potenza possa sempre dire “diciamo che abbiamo vinto e andiamocene”, la verità viene sempre a galla. La società americana ha pagato cara la sconfitta in Vietnam e così è accaduto per la società sovietica dopo l’Afghanistan. Per la Russia di Putin sarebbe ancora peggio, in termini di conseguenze.
[45] È di grande interesse rilevare l’analogia tra i presupposti strategici che stavano alla base dell’Operazione Barbarossa nel 1941 e quelli dell’Operazione Militare Speciale di Putin nel 2022. Date un calcio alla porta e il regime crollerà. In realtà la locuzione “date un calcio alla porta e l’edificio crollerà” può venire interpretata in due modi. Da una parte è una frase retorica, per incoraggiare gli uomini e minimizzare i rischi. Dall’altra può voler dire che si cercherà di entrare nell’edificio (del nemico) con la sorpresa che si associa ad un calcio alla porta e che è meglio che ci si riesca perché le risorse per abbattere i muri in realtà non ci sono.
[46] Prima di Stalingrado parlare di sconfitta del Reich era una eresia; dopo divenne un crimine.
[47] L’unità politica del continente nord americano era un obiettivo troppo ambizioso per chiunque nel XIX secolo, ma non vi è dubbio che Lincoln vedesse gli Stati Uniti proiettati in una dimensione di potenza mondiale e che la precondizione per raggiungere questo obiettivo fosse un lungo periodo di pace durante il quale costruire i fattori di potenza necessari per giocare un ruolo di gran peso. Se gli Stati Uniti si fossero divisi in due potenze concorrenti nel XIX secolo questo processo di crescita sarebbe stato assai ostacolato, o quanto meno ritardato di molto.
[48] Certamente ancora una grande potenza sebbene non più una superpotenza in grado di spartirsi il mondo con l’altra tradizionale superpotenza anglosassone. Anzi, l’invocato multipolarismo ha proprio il fine di sostituire un sistema pluricentrico al quasi monopolio americano del post 89 che aveva sostituito il lungo duopolio della Guerra fredda.
[49] l’Italia era la prima della lista anche a causa della forza elettorale, il 30% negli anni 70, dell’allora PCI di stretta obbedienza moscovita
Roberto Furlanetto
Laureato in Chimica e Filosofia. Cultore di Storia. Ha servito l’Esercito italiano come comandante di sezione.
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