Proclami, recriminazioni, sfottò, e il sempiterno fantasma del colpo di Stato a far capolino: è giunto a fine vita in aprile l’esecutivo guidato dal campione mondiale di cricket Imran Khan e incentrato sulla sua creatura politica, il PTI (Pakistan tehreek-e-insaf, Movimento per la giustizia del Pakistan), usciti clamorosamente vincitori dalle elezioni del 2018 grazie al favore di un’opinione pubblica stanca di PML-N e PPP, i due tradizionali partiti dinastici rispettivamente di centrodestra (casa Sharif) e centrosinistra (casa Bhutto); ma, non da meno, all’appoggio di quell’Esercito che da sempre riveste l’informale funzione di occhiuto arbitro della politica.
Il carismatico uomo nuovo – in politica dagli anni’90 ma rimasto lontano dalle leve del potere centrale – pareva ben intenzionato; ma i limiti tipici di una compagine antisistema e inesperta nell’arte di governo andavano a sovrapporsi ad altri limiti: quelli di un Paese che, pur non privo di autocoscienza e di una certa spinta propulsiva, resta incanalato in una via di sviluppo dalla quale non riesce a tracimare; e quelli di uno scenario costituzional-partitico di tipo italiano, tale cioè da imporre continui compromessi e cacce parlamentari all’ultimo voto. Già sul finire del 2018 Imran era perseguitato dagli sberleffi sull’inversione a U, con riferimento ai numerosi ripensamenti imposti dalla dura realtà rispetto alle promesse elettorali. Recuperato lo stato di grazia durante la fortunata crisi con l’India dell’inizio del 2019, l’esecutivo è presto ritornato bersaglio di strali quotidiani, e agitato da ripetuti rimpasti. Inquietante, poi, la capacità del gruppo religioso extraparlamentare Tehreek-e-Labbaik (TLP) di trascinarlo più volte al negoziato organizzando enormi violente proteste. Nonostante tutto, per tre anni pieni le opposizioni – precariamente coalizzatesi sotto la sigla PDM – non erano mai sembrate realmente in grado di insidiare un gabinetto tra i più duraturi della storia nazionale.
I segnali più preoccupanti per Imran giungevano piuttosto dai rapporti con l’Esercito, incarnato dal Capo di Stato Maggiore, generale Qamar Javed Bajwa, del quale era stato a lungo accusato d’esser succube. Il punto di rottura in autunno, a proposito della nomina al vertice dell’ISI, il principale servizio d’intelligence. Perduta quella sponda, gli equilibri erano rimessi in gioco. L’8 marzo il PDM depositava un’istanza di voto di sfiducia in seno all’Assemblea Nazionale (la camera bassa), lamentando l’incapacità del Governo di fronteggiare i problemi economici ed il suo inimicarsi tutti gli interlocutori occidentali. Oltre al basso continuo antiamericano, culminato nell’accusa a Washington di combutta coll’opposizione, Imran aveva duramente replicato alle pressioni europee volte a ottenere dal Pakistan un voto favorevole alla risoluzione ONU sul ritiro delle truppe russe dall’Ucraina, tra l’altro a seguito a una sua visita a Mosca avvenuta poche ore prima dell’invasione.
Hanno iniziato a rincorrersi dichiarazioni di esponenti della maggioranza favorevoli alla sfiducia. Il capo del Governo alternava toni apocalittici a discorsi da capo, piuttosto, dell’opposizione. Il voto era previsto per il 3 aprile, ma, quella domenica, è accaduta l’enormità: Qasim Suri, vicepresidente della camera in quota PTI, interdiceva la seduta affermando che essa era fondata su ingerenze straniere ed era pertanto contraria all’art. 5 della Costituzione, che impone lealtà ad ogni cittadino; ed il Presidente della Repubblica, Arif Alvi, accoglieva l’imraniana richiesta di sciogliere l’Assemblea, in vista di elezioni anticipate. Ma l’illusione è presto svanita: il 7 aprile giungeva la censura della Corte Suprema, pertanto il 9 si teneva il suffragio così come originariamente richiesto. Con 174 voti su 342, il Primo Ministro era sfiduciato e dimissionato, per la prima volta nella storia del Paese. Come previsto, al suo scranno si è insediato il capo dell’opposizione Shehbaz Sharif, fondatore insieme al fratello Nawaz del PML-N, ma, a differenza di questi, incontaminato da esperienze governative federali e, soprattutto, da carichi pendenti (Nawaz si trova a Londra per cure mediche e per sottrarsi a una dura condanna per corruzione), intenzionato a presentarsi come portatore di moderazione e competenza e destinatario dell’alto compito di suturare le ferite diplomatiche aperte dal suo predecessore. Dal 30 aprile, inoltre, suo figlio Hamza Shahbaz ha assunto la carica di Chief Minister (capo del governo provinciale) del Punjab: anche la provincia epicentrica, negli ultimi mesi attraversata da una lacerante crisi politica parallela a quella federale e con questa comunicante, è così passata dalle mani del PTI a quelle del PML-N.
Non è chiaro su chi l’Esercito intenda puntare per il prossimo esperimento: in ogni caso dovrà fare in fretta, perché la legislatura scade nel 2023.
Ario Levrero
Funzionario delle Commissioni Territoriali del Ministero dell’Interno, giornalista pubblicista
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